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Il vento e la rocca

Gli anni passavano e l’eco del vento ripeteva sempre la stessa parola: virus.
Nonostante lo sconforto, Maja non aveva scelta; doveva continuare il suo viaggio; ma la paura non la abbandonava mai.
Alcuni giorni si bloccava e rimaneva immobile per ore.
Da quando, con un colpo di tosse, Morana aveva maledetto gli universi, il terrore di veicolare il germe malato della strega era penetrato nelle anime di ogni essere vivente. Erano già trascorsi due anni da quel sortilegio e nessuno, neanche i più grandi stregoni, erano riusciti a trovare un antidoto che funzionasse.
Le conseguenze di vivere in quello stato di impotenza erano drammatiche; la nostra amata e sventurata fanciulla, per esempio, non era più in grado di definire i contorni delle cose; era come se il mondo attorno a lei appartenesse a un’altra dimensione.
A causa della maledizione anche Maja, proprio come ogni abitante dei pianeti, non poteva toccare né cose, né persone.
Quell’impalpabilità era la ragione per la quale ogni giorno sempre più esseri viventi si alienavano e si astraevano dal cosmo, scegliendo di spegnersi soli in antri bui e privi di vita.
In questo stato Maja giunse a Rocca Calascio e lì, mentre il vento proveniente dal corno centrale del Gran Sasso soffiava di mille e più nodi, si imbatté in un lupo.
Maja tremava; aveva paura che l’animale potesse mangiarla, ma il lupo, che si chiamava Norberto, la tranquillizzò subito.
Non temere giovane e bella fanciulla. Sono anziano e da anni non ho più i denti; vivo grazie agli infusi che il vecchio frate della chiesa vicina mi prepara ogni giorno.
Sai, giovane Maja, conosco ogni cosa di te e so quali e quanti sono i timori che ti attraversano, ma voglio rassicurarti: ciò che oggi ci appare immutabile presto cambierà.
Per questo, amica mia, non perderti d’animo, recupera le energie e dirigiti verso la cima della Maiella.
Lassù, un camoscio ti darà un’erba medica che ti proteggerà dalla maledizione di Morana.
Dette queste parole, si voltò e se ne andò.
Maja riparò all’interno della rocca per proteggersi dal gelo della notte e dall’impeto del vento; già l’indomani mattina si sarebbe rimessa in viaggio.

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Gran Sasso d’Italia

Mentre il popolo veniva abbagliato dal riflesso delle luci puntate sui polsi del ricercato appena sbarcato in città, Maja passeggiava felice per il vasto altopiano abruzzese; al tramonto si era, poi, attardata ad ammirare lo splendore di quell’enorme e meraviglioso masso di pietra che da secoli, come un titano, svettava tra le cime più alte dell’Appennino.

Sugli schermi l’immagine spettacolarizzata del condannato era stata mostrata per ore, commentata da poche e ripetute parole che non erano riuscite minimamente ad avvicinarsi al concetto di verità, ma che, al contrario, erano servite ad aggiungere ulteriore confusione tra i concetti di delitto, giustizia,  legge e barbarie.
Infine, nel momento in cui la tenue luce del sole crepuscolare, sostenuta da un complice vento di tramontana, era riuscita a restituire allo sguardo della nostra eroina il ritratto perfetto dell’armonia, della pace e della bellezza, l’individuo, che non aveva mai pienamente capito se in gioventù fosse stato un criminale o un rivoluzionario, realizzò che più di ogni altro aveva servito il potere, a lui astutamente affidatosi per insinuare negli animi il desiderio di ordine e il sentimento della paura.

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Parco Naturale Punta Aderci

Il territorio del Vasto, negli Abruzzi, custodisce gelosamente una splendida riserva incontaminata.

E, insieme alla riserva, costudisce anche una storia. Una storia di cui noi siamo venuti a conoscenza grazie al racconto che la lucertola Rertola fece a Maja, allorquando si incontrarono nella rigogliosa costa dei Trabocchi.
Il racconto iniziava così: c’era una volta una bambina di nome Maja (Sì, la protagonista di quella storia si chiamava proprio come la protagonista delle nostre infinite storie). Questa bambina era figlia di un pescatore. La sua casa era un modesto trabucco, ma lei non avrebbe mai lasciato quella palafitta di legno neanche per la più lussuosa tra tutte le dimore. Ogni giorno, al risveglio, Maja veniva salutata dal rumore del vento e del mare e il suo volto si illuminava alla vista dei colori del cielo, dell’acqua e dei fiori.
Il trabucco in cui viveva, infatti, si trovava nel punto più incontaminato e suggestivo dell’intera costa del Vasto, ossia di fronte al promontorio di Punta Aderci. Una porzione di terra, che vista dalle stelle, appariva come uno smeraldo incastonato tra la tela azzurra del mar Adriatico e quella dorata dei campi di grano.
I genitori di Maja erano due pescatori, ed anche i genitori dei suoi genitori lo erano stati a loro volta, inutile aggiungere che ovviamente pescatori erano stati pure i genitori dei genitori dei genitori della piccola abruzzese. Insomma, andando indietro nell’albero genealogico ogni antenato di Maja, persino colui che aveva vissuto prima della notte dei tempi, era stato un pescatore. Non era pertanto immaginabile che qualcuno potesse un giorno interrompere questa tradizione. Ma (come spesso avviene) quello che sembrava inimmaginabile, finì con l’accadere davvero. E fu così che Maja, figlia unica e ultima erede della cultura della sua famiglia, trascorrendo il suo tempo più in mare che in terra fosse diventata la più cara amica dei pesci del circondario. Voleva bene a tutti in modo indiscriminato. Alle occhiate, sul cui sguardo sprofondava ogni volta che si intratteneva a fare conversazione, alle acciughe che prendevano sempre in giro i poveri saragi per la loro linea non proprio asciutta, agli scorfani che la facevano sempre tanto ridere, e ai delfini con cui inventava spesso dei giochi nuovi e avvincenti.

Quando perciò suo padre annunciò con orgoglio a tutti i compaesani che lei avrebbe dovuto portare avanti la prestigiosa tradizione della pesca dal trabucco, la sua reazione fu inevitabile: svenne.
Non ne voleva proprio sapere di continuare quello che riteneva essere un assurdo e anacronistico mestiere e, per questo motivo, si mise a discutere con il suo babbo per giorni e giorni. Ma, nonostante l’impegno profuso e la convincente dialettica, il confronto fra i due fu sterile e non portò ad alcun risultato. Il papà rimase della sua posizione e Maja, ovviamente, non cambiò la sua.
A far da spettatori a questa disputa furono sia gli umani che i pesci. I primi giudicavano inaccettabile il comportamento della ragazza e imprecavano a voce alta, ogniqualvolta la vedevano, “O tempora, o mores!”.
I secondi, invece, riponevano grandi speranze nella giovane umana tanto che l’avevano assurta a proprio capo rivoluzionario. Per loro era ciò che Sophie Scholl aveva rappresentato per gli antirazzisti tedeschi. La idealizzarono così tanto che un gruppo di orate, sue seguaci, iniziò persino a farsi chiamare con il nome de’ “Le orate della Rosa Bianca“.
Nessuno sembrava in grado di risolvere la tenzone e la situazione era sempre sul punto di precipitare. Per gli umani era una questione di onore, di tradizione e di cultura! Mica si poteva cedere così facilmente! Ma, per fortuna, a levar le castagne dal fuoco ci pensò quel simpaticone del signor Fratino, un uccellino tipico della costa che, vedendo la disputa in stato di stallo, prese l’iniziativa. Volò vicino all’orecchio dell’anziano babbo di Maja e gli disse: “Gentil signorchenoncambiamaiopinione, lo sa che i miei genitori fino a poco tempo fa mangiavano esclusivamente insetti. E lo sa che da quando ho iniziato a nutrirmi di bacche e di radici, hanno cambiato anche loro alimentazione!  
Orsù dunque, signordallesolidecertezze cambiar sempre si può! Vedrà che trasformando questo trabucco in un rustico ristorante dove gli spaghetti di alghe e il riso condito con ruchetta e mirto saranno i piatti tipici, la faccenda si farà redditizia e interessante.

Il papà di Maja fiutando il grosso affare si lasciò convincere facilmente; smise di pescare; aprì al pubblico il suo locale e, da quel momento in poi, per generazioni e generazioni, la sua famiglia non la smise più di offrire ristoro ai visitatori di una delle più belle riserve naturali che Maja, la nostra Maja, avesse mai visto.

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Rivisondoli

C’era una volta un cavaliere, che chiameremo per convenzione Prodo, e c’era una volta anche il suo destriero. Insieme avevano percorso centinaia e centinaia di miglia in lungo ed in largo per l’Appennino. Dall’inizio del loro viaggio non si erano mai fermati per riposare e neanche, incredibile ma vero, per consumare un semplice pasto.

Venivano da molto lontano ed erano diretti a molto lontano. Una sera d’inverno, in cui era tremendamente più freddo del solito, (la temperatura sfiorava i – 31 gradi) il nostro cavaliere (non quello inesistente di Italo Calvino) decise di fare una sosta e si fermò. Si trovava nel grazioso paesino di Rivisondoli (vicino a Roccaraso e a Pescocostanzo per intenderci), un borghetto arroccato su di una piccola altura adagiata sull’altopiano delle cinque miglia.Fuori tutto era buio e silenzioso e sembrava non ci fosse anima viva; ma, il nostro protagonista, fortunatamente, scoprì che proprio davanti a lui si nascondeva una locanda.

Come se ne accorse? Ehehe amici miei Prodo aveva sensi ed intuito straordinari! 

Dalla fessura di un portone proveniva un’impercettibile luce ed un leggerissimo brusio. 

Il cavaliere, che era un uomo di mondo, capì che qualcuno stava gozzovigliando allegramente. 

Così bussò tre volte il battente del portone e aspettò. Dopo alcuni istanti si aprì una porticina da una stretta fessura e vi si affacciò un omino. 

“Chi siete?” disse “Cosa volete?”

“Sono Prodo cavaliere delle terre lontane e cerco un pasto caldo e un calice di vin rosso sangue.” 

 Udite queste parole l’omino non si trattenne ed esplose in una fragorosa risata. Si riprese a fatica e poi esclamò: “O mio nobile cavaliere, in realtà abbiamo ancora un solo tavolo libero, ma è stato prenotato da Crodo il Cavaliere delle Terre Vicine, nostro affezionato cliente. Sarebbe dovuto arrivare circa mezz’ora fa. 

Sa è nostra premura conservare il posto per almeno un’ora, ma non importa, si accomodi lo stesso, quanto meno si riposerà un po’. 
Qualora dovesse giungere l’altro cavaliere avrà due scelte: cedergli cavallerescamente il posto, oppure sfidarlo a duello. L’avverto però, quest’ultima opzione non sarebbe gradita al nostro padrone, anzi gliela sconsiglio vivamente! Insomma basta chiacchiere, prego si accomodi” ed aprì finalmente il portone.
Prodo varcò così la soglia della locanda ed alla sua vista apparve uno scenario eufemisticamente bizzarro. La cosa più strana era che seppur fosse entrato in una piccola casetta, si ritrovò in una sala di mille metri quadri con mille quadri, orologi e altri strani oggetti appesi alle pareti. 
Vi erano centinaia, ma che dico centinaia, migliaia, ma che dico migliaia, milioni di tavoli e tutti erano pieni di persone che ridevano e mangiavano, ovvero che ridevano e bevevano. 
Tra i tavoli si destreggiava il piccolo omino che aveva accolto Prodo.
Pensate, nonostante la sua minuta corporatura, riusciva a sollevare contemporaneamente 20 portate con un solo dito. Certo, a volte si confondeva e serviva il dolce a chi stava aspettando il primo, il caffé a chi aveva ordinato l’arrosto e l’acqua a chi aveva chiesto il conto, ma nessuno sembrava prendersela troppo e tutti continuavano a rilassarsi in un’atmosfera di allegra convivialità. 
All’ingresso c’era un grosso bancone e dietro il bancone un grosso proprietario. 

Scusate ma vogliamo fare una piccola parentesi: se siete amanti dei cartoni animati, il grosso proprietario ricordava molto sia quel Tony famoso per avere cucinato un piatto di spaghetti a Lilli e il Vagabondo sia quel Quasimodo che dimorava dentro una cattedrale. 
Ma non divaghiamo oltre e torniamo a noi, o meglio rientriamo nella locanda. 

All’ingresso del cavaliere il padrone si presentò così:

“Buonasera, nobil cavaliere,
sei nella taberna di chi è cuoco per mestiere,
orsù siediti senza ordinare
perché so già ciò che vuoi gustare,
in men che non si dica,
la tavola sarà imbandita
e in un solo istante 
di portate ne avrai tante e tante;
assaggerai tutti i sapori del mondo
nella magica locanda di Giocondo”.

Il cavaliere rimase sorpreso da questa presentazione in filastrocca ed il suo stupore continuò ancor di più quando fu accompagnato in fondo al ristorante. Per raggiungere l’ultimo tavolino ebbe un bel da fare nel destreggiarsi tra persone, sedie e portate. Solo dopo una decina di minuti raggiunse finalmente il suo ambito posto. 
Nello stesso istante in cui si accomodò sulla tavola apparvero centinaia e centinaia di pietanze locali dai sapori esotici e numerosissime bottiglie di vino di ottimo pregio. 
Il cavaliere delle terre lontane iniziò così a mangiare e a mangiare e mangiò così tanto che finì con l’addormentarsi. Si risvegliò solo la mattina seguente, sorpreso di trovarsi dentro una piccola e graziosa locanda in cui si alternavano pochi tavolini già apparecchiati per il pranzo. 
Sul suo tavolo c’era un biglietto con un conto così onesto che sarebbe stato incapace di dire la più piccola delle bugie. Il cavaliere si alzò in piedi, mise mano al proprio borsellino e tirò fuori una moneta d’oro, la lasciò sul bancone e uscì. Fuori, ad attenderlo il suo fido destriero con cui avrebbe continuato un viaggio, probabilmente, infinito. Di nuovo in marcia dunque, verso l’ignoto e senza sapere se da Giocondo avesse bevuto, avesse mangiato o avesse solamente sognato.

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Ovindoli

Sami è andato a sciare a Ovindoli. E’ un vero sciatore perché è sulle piste già alle 8,30.

Per arrivare a quell’ora si è dovuto svegliare all’alba visto che fino a ieri si trovava a Katmandu. La levataccia viene premiata! E’ il primo a scendere sulle piste ancora inviolate. Entra dentro la uovo-macchina e si fa trasportare verso la cima più bassa dei monti per iniziare a vivere la sua piccola avventura. Quando si apre il guscio della uovo-macchina si trova a poco più di 1400 metri di altezza. 

Davanti a lui, due panchinovie. La “Capanna” e l'”Anfiteatro”. Visto che la Capanna è più vicina, Sami opta per quella. Aspetta che arrivi la sua panchina e, poi, salta su pronto per una nuova salita. Fa freddo. Il vento soffia a 200 nodi.
Sami si abbottona per bene le cinque giacche, indossa gli 8 cappelli e le 16 sciarpe e spera di non arrivare congelato sulla vetta. Per fortuna al termine di quel gelido viaggio, Sami respira ancora e, finalmente, è pronto a sciare. Fa una curva, poi un’altra e anche se non andava in montagna da quando era bambino, ogni gesto piano piano gli viene automatico. Sente solo qualche piccolo dolore muscolare all’inizio, ma poi scende giù come una freccia. Si ferma alla panchinovia Montefreddo e si prepara di nuovo per un’altra fredda salita. La gioia all’arrivo è questa volta, ancora maggiore, perché la pista grigio scuro scuro che si appresta ad affrontare è tra le più belle del comprensorio. Mentre scende cade anche qualche fiocco di neve, un babbo natale in bicicletta lo sorpassa e un bambino con lo slittino inizia a volare.

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Pettorano sul Gizio

Maja, percorrendo la strada statale numero 1, arriva a Pettorano, un feudo a metà strada tra la Contea del Molise e la valle di Sulmona, di notte. Appare come un borgo arroccato sulla roccia (sostantivo greco petra, che potrebbe dare il nome al paesino).

Le strette vie, che si inerpicano verso la piazza principale, sembrano essere state fatte apposta per far passare millimetricamente la valigia ruotemunita in cui Maja trasporta i suoi quadri. Giunge a Piazza Umberto, ammira la fontana del 1897, e, proseguendo il percorso per piazza Zannelli, incontra il Palazzo del Municipio, la fontana del ‘600 e la meridiana. Si ferma a dipingere e ritrae ogni cosa. Poi si affaccia dal belvedere e dà uno sguardo all’oscura vallata, infine, prosegue per Castel Cantelmo. Qualche anziana signora si affaccia alla finestra. In quel piccolo paesino vedere una pittrice stravagante come Maja è una grande emozione. Lei saluta cordialmente e si rimette al lavoro.

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Alto Sangro

alto Sangro

Re Giorgio viveva a Napoli alla fine del ‘800. In quegli anni era stato aperto il collegamento ferroviario Sulmona-Isernia che, tra le numerose stazioni di sosta, annoverava anche quella di Roccaraso.
Un lunedì di fine febbraio, il sovrano, appassionato di sport invernali, mise da parte i suoi impegni e si recò con il treno a visitare la caratteristica cittadina dell’Alto Sangro.
Uscito dalla stazione si trovò davanti uno spettacolo straordinario: per le vie c’era un brulicare di attività, alberghi in costruzione, novelli sciatori alle prese con la propria attrezzatura e bimbi sfreccianti su sacchi e slittini.

Re Giorgio aveva già praticato lo sci in gioventù, allorquando aveva preso parte a numerose esercitazioni militari in alta quota sulle Alpi; tuttavia, quella era la prima volta che lo avrebbe fatto esclusivamente per svago.
Il tempo trascorse in fretta e furia e l’arrivo del crepuscolo coincise con il ritorno del sire in stazione.

Per il monarca fu una giornata meravigliosa che ricordò sempre come una tra le più felici di tutta la sua vita.
Quanto si era divertito a scendere con agilità le piste più facili e quanto si era inorgoglito ad affrontare quelle più ripide e meno battute! 
Inoltre, risale ad allora il suo primo incontro con il saggio Mastro Tonio.
Ritrovatisi insieme sulla seggiovia, nonostante fossero sconosciuti l’uno all’altro, i due si sorrisero, si abbracciarono e chiacchierano come due vecchi amici per tutto il tragitto.

Non conosciamo cosa si dissero quel giorno, ma sappiamo che da allora tra loro nacque una delle amicizie più belle, durature e sincere di sempre.

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