Posted in: I luoghi visitati da Maja, Italia, Liguria, Paesi, borghi e città

Genova, la città vecchia

Il sole è già alto nel cielo quando Maja e Dafne arrivano al porto di Genova. Nei pressi del Bigo si imbattono in un personaggio dallo stravagante abbigliamento in cui spiccano dei vistosi guanti bianchi, una giacca verde pisello e un’enorme bombetta. Il tizio dallo smaccato accento tedesco (tanto forzato quanto poco credibile) si presenta: “Boncioorno signorine, yo so el Professor Kranz, grante illusonista. Benvenute nella sittà te la lanterna!” e si toglie dalla testa lo smisurato copricapo. 

Poi, estrae dalla tasca della giacca una bacchetta magica con la punta a forma di testa di grifone, la fa roteare e pronuncia una incomprensibile formula che conclude annunciando quelli che saranno i suoi prodigiosi effetti: “Ganz i de ganze kranz, quella strata sopralevata spatrirà!”.
Ma, nonostante l’atteggiamento superbo e sfrontato e l’elaborato movimento della verghetta incantata, qualcosa va storto.

Preso dall’impeto, il Professore scaglia con violenza la bacchetta contro il tendine più sensibile del suo ginocchio destro. Ne conseguono tre eventi di differente intensità drammatica: la rottura del prezioso strumento magico, la propagazione alle vicine province dell’onda sonora prodotta dal conseguente urlo dell’uomo (grido di intensità sconosciuta ai mortali), e la sparizione al posto della superba e poco armoniosa opera ingegneristica degli anni Sessanta (che non si sposta di un solo millimetro) proprio del bizzarro Professor Kranz, sedicente mago, ma, in vero, improbabile apprendista.
Seppur oramai invisibile ed etereo lo stregone “Tedesco di Germania” riesce ancora a pronunciare delle parole: “Antate a via tel Campo e prendete la graziosa fanciulla dalla pelle color tell’ebano per mano”. 
Maja e Dafne, disorientate dall’inaspettato e poco ordinario incontro, decidono, dopo essersi scambiate un veloce cenno d’intesa, di seguire le indicazioni del Professore. Chiedono informazioni a un tanto efficiente quanto affabile spazzino del luogo che mostra loro la direzione da seguire per raggiungere Via del Campo, nel cuore vivo della città antica.
Giunte a destinazione la loro attenzione viene subito attirata da un giovane pittore seduto su una vecchia e logora sedia di paglia e di legno; l’uomo, magro e ben vestito, ha una una lunga e irregolare frangetta che copre parte della metà destra del suo viso. Sta colorando con dei pastelli un paesaggio invernale malinconico, disperato e sublime. C’è la nebbia e ci sono i prati bianchi, c’è un campanile che segna il confine tra la terra e il cielo, c’è il biancospino e c’è la neve che cade sui campisanti.
Poco distante dal talentoso artista, immobile come una statua, si trova Jamilah, una ragazzina nigeriana dalla pelle scurissima, vestita di pezze e di stracci sdruciti. Sembra aspettare qualcuno. È bella, affascinante leggiadra.
È certamente lei la ragazza che stanno cercando. Le si avvicinano, si presentano e le chiedono, non senza imbarazzo, di poterla prendere per mano. Ma nell’ascoltare quella curiosa richiesta e lei a sorprenderle anticipandole e prendendo l’iniziativa; afferra le mani delle due avventuriere e le trascina con sé in una folle e divertente corsa per i carruggi, le piazze e i monumenti della sua città. 
Durante il tragitto Jamilah racconta a Maja e Dafne la storia dell’antica Repubblica Marinara, una storia di prestigio, di fiorente commercio con i banchieri tedeschi, ma anche di povertà e di umiliazione. “Povertà e umiliazione presenti ancora oggi – aggiunge la giovane africana – in quelle strette vie dove non batte mai il sole e dove troppe donne vengono senza colpa condannate a un triste destino di sfruttamento e violenza”. 

Donne arabe, nordafricane, italiane, costrette a trascorrere la maggior parte del tempo in piedi all’aperto.
Maja e Dafne decidono di incontrarle e si offrono di aiutarle; vorrebbero liberarle da quella condizione disperata, ma Jamilah, ringraziandole per la solidarietà, le dissuade dalla assurda idea di intentare quella che sarebbe: “una tanto eroica quanto inutile impresa”.

“Neanche con il vostro aiuto, purtroppo, saremmo in grado di contrastare i potenti e crudeli aguzzini che ci comandano come se fossimo marionette inanimate. E una ribellione mal ponderata finirebbe soltanto per peggiorare la nostra già misera condizione. Mi dispiace, ma al momento non possiamo far niente”.
Maja e Dafne sconvolte e svuotate, abbracciano le donne una ad una per confortarle. E mentre le stringono forte scelgono di non trattenere le lacrime, che inevitabilmente cadono dai loro occhi, lasciando così trasparire quella sensazione di profonda inadeguatezza che stanno provando nel sapersi impotenti di fronte a un male tanto grande.
Ma non c’è tempo per fermarsi oltre. Il giro deve proseguire velocemente per evitare che qualcuno si accorga dell’assenza di Jamilah. Le tre giungono all’ingresso del lussuoso Palazzo Rosso. Quando varcano la soglia del regale edificio le vesti di Jamilah si trasformano: le pezze diventano un sontuoso abito di seta e le irregolari scuciture pregiati ricami.
Le giovani donne superano numerose scale,  grandi stanze, interminabili corridoi; montano, infine, dentro un ascensore con il quale salgono, in meno di un secondo, 570 piani.
Al termine della corsa Maja, Dafne e Jamilah sono sul tetto più alto della città.Tutto intorno a loro Genova, abbarbicata sulla collina di Carigliano e tinta dal caldo sole del tramonto, si mostra superba in una perfetta veduta d’insieme composta dalle diverse architetture che nel corso dei secoli si sono mescolate, alternate e sovrapposte.

Gli uccelli, di vedetta sulle vicine e irregolari tegole, dominano le case, le barche e il mare, mentre un gabbiano cullato dalla dolce brezza della sera si addormenta e fa un sogno: Jamilah e le sue compagne stanno danzando e cantando lungo i carruggi in festa. Sono finalmente libere e felici; non hanno più paura. Gli sgherri che per anni le avevano ridotte in un’anacronistica schiavitù sono stati definitivamente cacciati via dalla città.

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Dolceacqua

Castello dolceacqua

Come forse già abbiamo scritto, quando Colombo – il nostro amico piccione – era giovane girava i mondi perché doveva aggiornare le sue carte geografiche. E in uno dei suoi innumerevoli e avventurosi viaggi si ritrovò in un posto magico al confine tra la realtà e la fantasia.  Quel luogo era l’antico borgo di Dolceacqua, nasceva, al di là di un caratteristico ponte, sulla sponda destra del torrente Nervia e alla vista appariva confuso, sfumato e privo di sostanza. Persino l’imponenza dei resti di quello che una volta era stato un glorioso maniero (le cui origini risalgono ai tempi dei Conti di Albintimilium), dalla forma squadrata e dalla invidiabile posizione sovrastante la città, era come sbeffeggiata dalla consistenza effimera cui appariva allo sguardo dei suoi visitatori e anche a quello, non proprio felino, del pennuto cartografo. Non ci crederete, ma ogni dettaglio di quella insolita costruzione medievale era come dipinto.
E come il castello ogni cosa visibile – il fiume, il ponte, le case – sembrava comporre l’immagine di un quadro impressionista.
Degli altri testimoni di questo spettacolo non ne sappiamo molto, ma almeno per quanto riguarda quel simpaticone del piccione possiamo assicurarvi che non aveva né bevuto alcolici, né assunto sostanze stupefacenti e psicotrope.
Pertanto, visto che la sua sobrietà per nulla si conciliava con l’assurdità della situazione, il pennuto volle vederci chiaro; pretendeva delle spiegazioni e, dato che per strada non c’era anima viva, prese coraggio e, con la speranza di incontrare qualcuno, entrò nell’unico edificio il cui l’uscio era rimasto socchiuso. Figuratevi il suo stupore quando si rese conto di non essere entrato in un semplice locale, ma in un cinema popolato da cyborg, androidi e mutanti.

“Perdindirindina!” Esclamò il volatile sempre più esterrefatto. Poi, dopo essersi ripreso dalla maraviglia, si avvicinò, con fare discreto, all’unica persona che gli appariva rispettabile tra quelle presenti in sala: un anziano signore dai radi capelli bianchi, dalla foltissima barba e dallo sguardo penetrante che, appena si accorse di Colombo, gli sorrise e si presentò:
“Bonjour, je suis Claude Monet que je peux faire pour servir?”.
Colombo che di lingue ne sapeva una più di Lucifero, non ebbe difficoltà a comprendere quella esotica presentazione e rispose.
“Signor Monet, in questo posto ogni cosa è assurda. E io qua ho perso il senno a tal punto da dubitare anche della mia esistenza! 
Perciò, al fine di rassicurarmi, potrebbe cortesemente illuminarmi sulla mia situazione? Sono in un sogno o sono nella realtà?”
Monet spiegò con semplicità al nostro affezionato amico che a Docleacqua tutto era reale e, al contempo, sogno. E ciò che in qualsiasi altro posto sarebbe stato considerato pura follia, lì era assolutamente normale.
Colombo venne dunque rincuorato dalle spiegazioni logiche e chiare che gli fornì Monet e, senza più alcuna preoccupazione, decise che si sarebbe goduto quello stravagante soggiorno; per questo motivo chiese al suo interlocutore di suggerirgli come trascorrere il tempo nel modo più piacevole possibile.
Fu allora che Monet, felice di fargli da guida turistica, gli disse, con una punta di orgoglio, che in quel luogo, ogni anno in quei giorni, si organizzava un importantissimo Festival universale a cui partecipavano artisti veri e artisti inventati. Ognuno doveva creare le proprie opere servendosi soltanto dell’immaginazione e le migliori diventavano parte integrante del paesaggio. Tutto ciò poteva accadere esclusivamente a Dolceacqua perché si trovava lungo un confine spazio temporale dove realtà e fantasia si alternavano in continuazione. 
Lo stesso Monet aveva partecipato al concorso immaginando un quadro che appariva e scompariva e, un istante sì e uno no, prendeva il posto della città.

“Che paese incredibile!”. Commentò Colombo e avendo oramai chiara ogni cosa, si mise di buzzo buono a disegnarlo in una mappa quadridimensionale che sarebbe diventata, negli anni a venire, un punto di riferimento unico  per tutti i viaggiatori intergalattici che avrebbero navigato nello spazio-tempo.

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