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Disperse nella pineta della Duna Feniglia

Il caldo asfissiante suggerisce a Maja e Dafne di addentrarsi in una fitta pineta. Ma le due amiche finiscono per smarrirsi nella boscaglia, disorientate da un dedalo di tortuosi sentieri; dopo ore di cammino non sanno più come tornare indietro anche perché attorno a loro non c’è anima viva a cui chiedere aiuto.
Superano per inerzia l’ennesimo bivio e giungono in uno slargo dove la vegetazione è insolitamente più diradata. Là, un grido le scuote:

“Dovete sbrigarvi! Non c’è più tempo.”

Maja e Dafne volgono lo sguardo in direzione di quell’ammonimento e, tra l’oscurità, scorgono la Gorgone Medusa, imprigionata in una pietra, che continua a parlare:

“Il potere di Morana è cresciuto a dismisura e se non interverrete subito, ogni speranza di salvezza svanirà. Gli ultimi accadimenti si sono rivelati devastanti. Gli eserciti hanno sparato a persone in fila per un pezzo di pane, hanno bombardato la redazione di una televisione e hanno fatto esplodere un ospedale. Dopo questi crimini si è persa, ahimè, ogni parvenza di umanità.”

Una lacrima sgorga dall’occhio sinistro della Gorgone e scivola sulla roccia finché non cade a terra.

“E cosa possiamo fare?” risponde Maja che poi prosegue: “Sono anni che inseguiamo Morana in giro per gli universi, ma non siamo mai riuscite ad avvicinarla: siamo stanche, demoralizzate e ci sentiamo impotenti.

La Gorgone, dopo aver ascoltato la giovane pittrice, riprende il suo discorso:

“In realtà, proprio ora che tutto sembra perduto c’è una possibilità di salvezza. In questo momento Morana si sente invincibile e le sue nefandezze non hanno più filtri. Vi assicuro che sarà più facile per voi smascherarla.
Andate in mezzo alla gente e raccontate la verità.
Dite a chi spara che è vittima di un incantesimo; spiegategli che tornerà di nuovo a essere felice solo se rinuncerà alla violenza.

Dette queste parole Medusa rimane in silenzio. Maja e Dafne la ringraziano per i preziosi consigli e, con rinnovata fiducia, riprendono il viaggio. Giungono ai confini della laguna di Orbetello dove un airone cinerino indica loro la strada per uscire da quel labirinto fatto di pini e di arbusti.

Nonostante la devastazione che le circonda, Maja e Dafne non si arrendono e continuano la ricerca di Morana, ancora impunita.

Riusciranno a portare a termine la loro missione?

Approfondisci su wikipedia la figura di Medusa e la Riserva naturale della Duna Feniglia.

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La protesta delle orate di Orbetello

La crisi non si risolveva; le guerre continuavano a imperversare nelle regioni. I poteri della perfida Morana sembravano espandersi sempre più: se da una parte un suo sortilegio istigava i governatori degli Stati a far degenerare la situazione globale, dall’altra il suo siero narcotizzante addormentava il resto dell’umanità. A essere immuni dalle sue nere magie erano i pesci e, in particolar modo, le orate che avevano deciso di organizzare una grande manifestazione per la pace. Con la loro protesta non violenta chiedevano il definitivo cessate il fuoco su una striscia di terra del pianeta dove le esplosioni non risparmiavano neanche i più piccoli tra i bambini.
Maja e Dafne non esitarono a schierarsi con le orate ed insieme marciarono e nuotarono per la laguna. Gli aironi cinerini, reporter locali, riferirono della presenza di circa 300 mila orate. La marcia indebolì le forze soprannaturali della terribile strega. Maja e Dafne insieme alle orate avevano vinto una piccola battaglia; ma sarebbero riuscite a riportare il mondo alla normalità?

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Bagni San Filippo

Bagni San Filippo

“Sai cosa accadde alla balena bianca?” disse un cane di nome Volpino al nostro Giufà che era ansioso di conoscere nuove storie da raccontare ai suoi amici del mercato.
“No”. Gli rispose il poeta ubriaco e si accomodò esortandolo a iniziare a parlare.

“C’era una volta, tanto, ma tanto tempo fa, una enorme balena bianca, che si chiamava Ghiacciolona. La balena viveva spensierata nel Mar Glaciale Artico, ma un giorno, mentre stava giocando a nascondino con le sue sorelle, si allontanò troppo e smarrì la strada di casa; la povera beluga vagò e vagò e finì con il ritrovarsi, non si sa come, a varcare lo stretto di Gibilterra. Sola, sperduta e terrorizzata, non sapeva più come tornare indietro. Rimase così imprigionata in quello sconosciuto mare, che apprese poi chiamarsi Mediterraneo, dove dapprincipio trascorse il periodo più mesto della sua vita, perché lì era l’unica della sua specie. Dopo alcuni anni, però, si abituò all’idea di una vita solitaria e iniziò ad apprezzare quel piccolo oceano dove imparò a nuotare con disinvoltura. Le acque erano calde, ristoratrici e mai agitate; la notte, poi, quando tutti dormivano, Ghiacciolona si avvicinava alle coste della Sardegna e della Sicilia e ammirava commossa la bellezza del paesaggio, il chiarore della luna e la brillantezza delle stelle.
Ben presto fece amicizia anche con i locali: i delfini, le orate, i calamari e le seppie. Insomma riuscì a farsi una bella comitiva e, a dire il vero, non dovette impegnarcisi neanche troppo; vista la sua imponente stazza, difatti, tutti volevano diventare suoi amici. Ogni tanto però veniva a turbare la sua serenità la Malinconia che le ricordava della sua famiglia, dei suoi amici e della possibilità che i suoi cari la stessero ancora cercando.

Un giorno venne a sapere da una soiola di passaggio che nella Riserva Naturale Costa di Licola viveva una donna, la Sibilla Cumana, dalle virtù straordinarie e che costei le avrebbe potuto indicare la strada per ritornare a casa. Mai aveva ricevuto una notizia più gradita! Iniziò a sprizzare acqua da tutti i pori e per la felicità organizzò un elegante ricevimento con i suoi nuovi amici; fece allestire un banchetto ricolmo di sfiziose vettovaglie tra le quali spiccavano dei prelibati manicaretti fatti con le alghe del mar Tirreno e dei saporiti cocktail di acqua salata dello Ionio e del mar Ligure.
L’indomani, dopo aver salutato tutti, partì. Trovò facilmente la zona in cui viveva la Sibilla e quando fu abbastanza vicina alla costa, la fece mandare a chiamare da un granchio del posto. Il granchio, orgoglioso di aver ricevuto l’incarico di ambasciatore, si affrettò, ma, nonostante l’impegno, impiegò un bel po’ di tempo prima di raggiungere l’oscuro antro della maga. Malgrado  il suo poco atletico passo riuscì comunque a portare a termine la missione che gli era stata assegnata e il giorno successivo accompagnò la Sibilla in riva al mare.
La donna chiese alla giovane beluga: “Piccola Ghiacciolona perché richiedi il mio vaticinio?”
La balena le raccontò la sua storia e le confidò il suo grande conflitto. Era sì felice, ma la mancanza dei suoi cari la tormentava. Doveva ricongiungersi con loro.
La Sibilla, senza commentare, iniziò a tracciare degli strani disegni sulla sabbia. E solo dopo molte ore, si fermò e pronunciò il suo oracolo.
“Ghiacciolona se vuoi rivedere tuo padre e tua madre ancora in vita devi sbrigarti. Dovrai risalire le acque del fiume Ombrone, prendere la deviazione del fiume Orcia, attraversare parte della meravigliosa valle che da questo corso d’acqua prende il nome, e fermarti nei pressi della località di Bagni San Filippo. Se giungerai in tempo troverai ancora aperto un varco spazio temporale, dovrai attraversarlo prima che si chiuda e, a quel punto, ma solo se avrai fatto tutto quello che ti ho predetto, giungerai nel Mare Glaciale da cui sei partita. Ricorda, però, non potrai mai più tornare indietro e dovrai dire addio a questo luogo meraviglioso che ti ha accolto e coccolato”.
Ghiacciolona era 20mila leghe sotto i mari (espressione ittica equivalente del nostro al settimo cielo). Nonostante l’avvertimento della Sibilla e i dubbi che ancora la affliggevano, prese senza esitazione la strada indicata e, giunta a destinazione, sbalordì. Bagni San Filippo era un luogo incantato dove le acque gelate e cristalline sgorganti dal mitico monte Amiata si confondevano con quelle calde e sulfuree provenienti dal sottosuolo. Le concrezioni calcaree le ricordavano i paesaggi della sua infanzia. Una lacrima sgorgò dal suo melone. Trovò il varco, si voltò un’ultima volta indietro e lo passò. Dietro di lei il passaggio si richiuse. Subito dopo, in quello stesso punto avvenne una eruzione in seguito alla quale si formò un gigantesco masso bianco che assunse, incredibile ma vero, proprio le sembianze di Ghiacciolona. Dall’altra parte del mondo ad accogliere la balena bianca c’era la sua famiglia che non aveva mai perso le speranze di riabbracciarla.
Da quel momento in poi vissero tutti felici e contenti, ma nelle più gelide notti invernali la Malinconia tornava a far visita a Ghiacciolona e le ricordava delle sue avventure mediterranee, del tepore di quel piccolo oceano e dei numerosi amici che lì l’avevano amata”.
Così Volpino concluse il racconto e Giufà, coi lucciconi agli occhi, lo ringraziò. La storia di Ghiacciolona il poeta del mercato CircoMax l’avrebbe poi raccontata migliaia e migliaia di volte. E, a seconda di quanto fosse ubriaco, avrebbe aggiunto, tolto o reinventato uno o più particolari.

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Radicofani

Radicofani

Maja ricorda una visione avuta in un passato sfumato e confuso tra le mille sue avventure. Una valle verde, bellissima, puntellata da antichi borghi.

La rammenta quando si ritrova davanti alla fortezza di Radicofani, le cui rovine raccontano del lavoro del tempo e di una gloria passata. Le si fa incontro un nobile cavaliere dalla folta barba e dai baffi da sparviero. Le fa una riverenza e si presenta: “Sono il figlio del conte ghibellino Tacco di Ugolino, Ghino di Tacco è il mio nome, brigante di professione, sono al suo servizio splendida fanciulla”. Maja nel vedere quel buffo figuro sorride e arrossisce. Lo ringrazia per l’accoglienza regale che le ha riservato e si mette ad ascoltare la sua storia. Una storia di vagabondaggi e di dolore, una storia di cappa e spada, dai toni tragici, comici ed epici. 
Sembra che il di Tacco fosse noto ai dotti quale brigante buono, e che il suo nome fosse stato spesso usato da squallidi impostori che nulla avevano a che fare con la sua galanteria.
Dà da mangiare alla nostra amica, la porta a visitare il borgo e la alloggia per la notte in una delle locande più confortevoli e calde del paese.
Maja quella notte fa uno splendido sogno; cammina tenendosi per mano con Dafne e Sami tra le rigogliose colline della Val d’Orcia.

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Maja e il sogno della Val d’Orcia

Val d'Orcia

Maja è stanca. Sono oramai trascorsi numerosi mesi da quando ha iniziato a cercare la sua mappa.
Ha rovistato un’infinità di documenti, ma se confrontati con tutti quelli presenti nella sconfinata libreria di Colombo, sono soltanto poche briciole. Ha paura di aver tralasciato uno scaffale, un libro o anche una semplice pagina e di aver perso in questa mancanza la possibilità di andare incontro al suo destino. Una paura che si trasforma in terrore quando le si insinua il pensiero che i sovrumani sforzi che la aspettano siano già inutili e vani, ancor prima di essere intrapresi.
Si lascia cadere a terra svuotata e si consola sognando. Immagina il suo successo e lo visualizza in una sinuosa vallata le cui calde tonalità di verde sembrano dipinte dal pennello di un macchiaiolo*. 

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Abbazia San Galgano, Eremo di Montesiepi e gatti

In un tiepido pomeriggio invernale nei dintorni di Chiusdino, nel cuore della verde ToscanaMaja conobbe un abate cistercense che la curò e le raccontò la antica storia del cavaliere Galgano. 

Prima, però, di introdurre anche voi nella vita di una delle figure più appassionanti del pieno medioevo toscano, vorrei rendervi edotte ed edotti su quel che accadde a Maja la mattina che precedette quell’incontro; un incontro che avrebbe inevitabilmente cambiato il corso della sua vita.

Mentre era alla ricerca di Dafne, Maja incappò nel Mersedotto, il famoso ponte di legno che divideva le due sponde del fiume Merse. Nell’attraversarlo non si accorse però che molte delle assi che lo componevano erano vecchie, fradice e che, a causa del recente passaggio di una pantagruelica mandria di vacche sul ponte, erano quasi tutte sconnesse, e così, quando ne raggiunse il centro, inevitabilmente le assi si ruppero e lei capitombolò nel fiume. Certo, il rivo non era il Mississipi e l’altezza che lo separava dal manufatto era di pochi centimetri, ma l’impatto per la nostra amica non fu comunque privo di conseguenze; Maja sbatté un polpaccio contro una roccia appuntita e, poiché il depositarsi di materiale solforico proveniente dalle vecchie cave abbandonate aveva contaminato il fiume, si procurò anche una violenta dermatite che le provocò l’escrescenza di purulenti pustole viola su tutto il corpo.

Claudicante e urticata Maja perse l’orientamento e vagò disperata per ore per l’Alta Val di Merse, finché non si imbatté in un monumento sacro, imponente e mirabile: era la famosa abbazia dedicata al culto del leggendario Santo Galgano.

E siamo finalmente ritornati all’inizio della nostra storia, ossia all’incontro tra Maja e l’abate.
Dunque, come vi stavamo anticipando, quest’ultimo nel vedere la fanciulla malconcia la invitò a seguirlo e la accompagnò all’interno della erboristeria della confraternita; una piccola bottega piena di albarelli, bocce e vasetti contenenti una miriade di erbe e sostanze dai prodigiosi poteri curativi.
L’abate fece accomodare Maja, le preparò e le porse un infuso di malva locale, ed ella, seguendo le indicazioni del bugiardino datole insieme alla bevanda, la ingurgitò, ancora bollente, tutta di un fiato; gli effetti furono immediatamente miracolosi: le bolle svanirono e il dolore al polpaccio passò! Solo allora il custode di quel sacro tempio incominciò il suo racconto:

“C’era una volta un uomo dalla condotta di vita dissoluta e non esattamente irreprensibile. Vissuto in un’era di grandi battaglie costui, al compimento del diciottesimo anno di età, divenne, come molti suoi coetanei, cavaliere.
Da allora non ci fu un solo giorno in cui non uccise, non si ubriacò e non impose con violenza il suo amore alle dame più belle. La sua forza distruttrice non lo abbandonava mai e chiunque si trovasse davanti al suo ferro era destinato a perire.

In quell’efferato tempo in cui impazzava il cavaliere Galgano, vivevano i tranquilli gatti toscani. Essi erano assai imbufaliti. Poverini, avrebbero voluto vivere in pace, ma a causa degli uomini, per loro una vita serena era impossibile.
Così un giorno, stanchi della violenza che continuava senza sosta a imperversare, decisero di recarsi al vecchio olivo per chiedere a Federix, il più saggio tra i felini, un suggerimento su come affrontare quella drammatica situazione. Il sapiente vegliardo li consigliò con le seguenti parole: “Randagi di tutta la vallata, unitevi! Se la tranquillità volete far tornare dal Cavaliere Galgano dovete andare. In quest’epoca di apparizioni e di creduloni, dategli una ragione per levarsi dalle belliche tenzoni. Se lui si placherà, vedrete che anche il caos cesserà”.


Dette queste parole fece due colpi di tosse e poi spirò: aveva raggiunto la veneranda età di 10 vite.
La sera stessa i mici convocarono un’assemblea che si protrasse per tre notti e tre giorni e, alla chiusura dei lavori, stabilirono quale sarebbe stato il modus operandi per convincere Galgano a depositare la spada.
Si sarebbero travestiti da angelo e avrebbero finto di apparirgli in un sogno.
Perciò, si infilarono in tre dentro un grande lenzuolo bianco e, in precarissimo equilibrio, cercando di sforzarsi a non conficcarsi le unghie l’uno sull’altro, si recarono di notte nella sua stanza da letto, lo svegliarono e gli dissero parlando all’unisono: “Cavaliere Galgano sono il divino Gattangelo. Sono qui dinnanzi a te per rivelarti il nostro volere: ti abbiamo scelto, tra miliardi di esseri viventi, perché sappiamo che saprai far tesoro del segreto della vita. Ascolta ordunque queste nostre parole:
Se felice il mondo vorrai far diventare la spada in una croce dovrai trasformare, in una rotonda riparare e per sempre dovrai eremitare”.
Poi, l’angelo, ehm i gatti, svanirono nel nulla.

L’indomani Galgano, a differenza degli altri sogni di cui non rammentava mai niente, si ricordò con non poco stupore di ogni particolare della sua visione notturna; poi, dopo una profonda riflessione, comprese quanto fosse importante il compito che gli era stato affidato. Da lui dipendeva il destino del mondo. Era il prescelto!
Felice, si recò nella vicina Rotonda di Montesiepi, conficcò la spada in una roccia che ivi sorgeva, prese gli ordini e lì per sempre fu eremita.
Certo, nei giorni che seguirono la sua consacrazione, più di una volta, il santo Galgano si era svegliato con la voglia di tornare a far vibrare nuovamente le sue spade, ma alla fine ci aveva sempre rinunciato. Quella sua nuova e noiosa vita era un dono divino e lui l’avrebbe portata avanti, senza tentennamenti, seguendo la regola e l’ordine che aveva ricevuto.

E fu così che da quel momento in poi, la pace tornò, i gatti trascorsero un lungo periodo di serenità e tutti vissero annoiati e contenti.

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