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Dipingendo la valle del Vigi

Sul far del crepuscolo Maja giunge a Sellano. Anche lì l’atmosfera è surreale; la poca gente presente in strada si muove frettolosamente mentre una macchina della polizia percorre avanti e indietro la via principale del paese. Sopra il tettuccio del veicolo un megafono ripete con voce metallica e senza soluzione di continuità: “Si prega la cittadinanza di rientrare in casa; tra 15 minuti inizia il coprifuoco; è per il vostro bene; isolati nei vostri alloggi sarete al sicuro; accendete la televisione e guardate lo sport”.

Il virus che si è diffuso in tutti gli universi non ha ancora arretrato; persino in quel piccolo borgo abitato da poche anime sopprimere la socialità sembra essere l’unico modo efficace per contrastarlo.
Maja dovrebbe trovare un alloggio ma, con i tempi che corrono, l’impresa più che ardua risulta impossibile.
Per questo motivo non si affanna a cercarlo e, data l’inquietante presenza delle forze dell’ordine, si allontana velocemente dal paese.
Su una bella radura da cui può ammirare la bellezza della Valle del Vigi monta la grande e spaziosa tenda che Mastro Tonio le aveva regalato prima di partire.
Quindi, sistema una tela sul cavalletto e si appresta a dipingere quel luogo meraviglioso e imperturbabile nelle cui infinite sfumature di verde scorge un futuro più luminoso e pieno di speranza di quel tetro presente che sta vivendo l’umanità.

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Monte Vettore

Monte Vettore

C’era la nebbia sul Pian Grande e non si vedeva intorno che per pochi centimetri. Il resto era un umido bianco sporco. Era mattina. Dafne non sapeva l’ora. Le 7, le 8, forse le 9. Nonostante fosse estate faceva molto freddo.
Aveva camminato tra ruderi e vecchie rovine. Lungo il percorso aveva incontrato volpi, donnole, tassi, istrici, ma non aveva mai visto gli umani. Era andata avanti, in salita. Poche e brevi soste: per dormire, per mangiare, poi aveva solo camminato. E nel continuare a farlo, nel mettere un piede davanti all’altro, le venne da pensare a chi, in quegli stessi istanti, nei più diversi e remoti luoghi degli universi stava facendo cose belle; pensava ai pittori, agli artigiani, ai cineasti, agli scrittori. Li immaginava al lavoro e provava invidia. Odiava le loro opere e i loro successi. A lei quelle strade erano state proibite; a lei era stato ordinato di camminare.
Aveva ricevuto il compito di attraversare quei posti desolati e abbandonati dall’uomo, dove la natura, seppur meravigliosa, la rendeva inquieta; dove ogni forma vivente portava con sé il segno di una orribile violenza da cui era stata irrimediabilmente lacerata.

Destro e sinistro, destro e sinistro, in salita. La sua sembrava un’esercitazione militare; un’esercitazione che andava avanti da mesi, anzi da anni e il senso non c’era.
Morana le aveva chiesto di seguire le sue assurde indicazioni e in cambio l’avrebbe lasciata vivere ancora per un po’.
L’illusione che Dafne si era creata per trovare le forze per andare avanti, era che lungo il cammino avrebbe potuto incontrare Maja, ma in realtà stava solo sprecando quel poco tempo che le rimaneva a disposizione in una monotona estenuante scalata verso una cima che sembrava non arrivare mai e dove mai avrebbe potuto riabbracciare la sua amica.
La sua missione, il suo lavoro, era consegnare una lettera. Una lettera che alla fine del Pian Grande, nei pressi di un abbeveratoio, volle tirar fuori dallo zaino. Doveva capire perché stava dedicando una parte della sua vita a quel pezzo di carta. Osservò la busta: il mittente era l’Ufficio per il Progresso per un Mondo Migliore. Il destinatario il vecchio pastore del Monte Vettore. Le venne naturale chiedersi cosa volesse la burocrazia cittadina da un uomo sperduto che viveva in quelle terre remote e che forse era già morto da tempo.

Non resistette. La aprì e la lesse. C’era scritto: “Egregio signor pastore, Ella è l’ultimo abitante di quella parte del Centro Italia che venne devastata dal terremoto. La zona dove vive non è sicura. Non lo è mai stata. La terra continua a tremare e noi non possiamo garantire la Sua incolumità. La invitiamo pertanto ad abbandonare quei luoghi e a recarsi presso i nostri uffici lungo la costa. Provvederemo ad assegnarLe un’abitazione decorosa e a far sì che Ella possa avere una vita tranquilla”.

E così, l’Ufficio per il Progresso per un Mondo Migliore impiegava le proprie risorse per invitare un folle ad andare via da quella terra ostile.  Che senso aveva?  Perché, poi, mandare lei in cima a quella pericolosa montagna?

Dafne non riusciva a darsi una risposta, ma intanto continuava a fare quello che le era stato richiesto. Tornante dopo tornante era giunta nei remoti anfratti dell’Umbria: era passata per Borgo Cerreto, per Norcia, la città senza più campanili, per la oramai inesistente San Pellegrino, e da lì si era inerpicata per la montagna lungo una strada che non era più una strada, ma un miscuglio di crepe, asfalto, erba e terra. In cima ad una vetta aveva visto i resti di quello che, prima delle devastanti scosse, era stato il nuovo Rifugio Perugia.
Poi era scesa sul Pian Grande. Là, per orientarsi nella bianca oscurità della nebbia, si era affidata a una bussola che aveva portato con sé e grazie alla quale era riuscita a raggiungere Forca di Presta, il punto da dove attaccare l’ultima ascesa; l’ascesa  al monte Vettore, vertice estremo di una faglia che tante volte aveva fatto urlare la terra e che tante volte, in quell’inferno al contrario, aveva fatto piangere anche il più infinitesimale organismo.

A Forca di Presta prese un sentiero, più ripido di quelli che aveva fino a quel momento percorso. Sotto i suoi piedi la terra tremava, ma quell’incessante vibrare smise di farle paura. D’improvviso si sentì protetta, cullata, sicura, e non ci mise molto ad arrivare in cima.
Sulla vetta fu testimone di uno spettacolo di rara bellezza. Un enorme cratere, un verde prato puntellato da milioni di stelle alpine, un lago rosso a forma di occhiali e, intorno, una comunità di gitani.

Dafne si presentò con timidezza, poi disse agli zingari che stava cercando il vecchio pastore.
“Forse, parla del signor Pietro”, bisbigliò un bambino nascondendosi dietro la lunga gonna viola e bordò di una giovane a affascinante fanciulla dagli occhi di perla.
Dafne fece cenno di sì.
Allora Jasmine, così si chiamava la bella zingarella, un poco commossa disse che il vecchio eremita era morto quella notte stessa.
La donna invitò Dafne a restare un poco con loro e le indicò una tenda dove si sarebbe potuta ristorare. Quando giunse la sera accesero un fuoco e mangiarono insieme intorno a una grande tovaglia sulla riva del lago. Jasmine raccontò la storia di Pietro e di come quella storia fosse diventata parte integrante della storia del suo popolo.
Dopo il violentissimo terremoto dell’anno 16, il sacro imperatore aveva promesso che avrebbe riportato la vita e l’industria nelle terre colpite dal sisma. Purtroppo, quella promessa non venne mai mantenuta e lentamente, scossa dopo scossa, ogni cittadino venne sradicato dalla propria terra e “accompagnato” in città. Solo Pietro riuscì a resistere; si nascose per anni tra le rovine del vecchio borgo di Castelluccio e poi, braccato, si rifugiò sul cratere del Monte Vettore. Lì visse con poco, a volte con niente. Quando la morsa del gelo era troppo stretta anche per lui, guardingo scendeva sui grandi piani e faceva incetta di erbe selvatiche.
Con il passare del tempo prese l’abitudine di spingersi giù a valle più spesso: anche a primavera e d’estate per seminare le lenticchie e per raccogliere i legumi, i funghi (turini, mazze di tamburo, etc.) e i frutti di bosco.
Così, mentre Pietro l’eremita viveva dimenticando le regole sociali e imparando a conoscere quelle della aspra natura dei Monti Sibillini, noi rom venivamo scacciati con le ruspe da quelle stesse città in cui erano venuti ad abitare, controvoglia, i suoi compaesani; gli amministratori locali prima ci emarginarono nelle discariche e poi ci mandarono via anche da quelle.
A rendere ancor più insostenibile la nostra situazione le invettive di alcuni cittadini, pieni di odio, che ci urlavano contro: “tornatevene a casa vostra”.
Ma noi un a casa non l’avevamo mai avuta.
E capitava spesso persino che di notte qualcuno scrivesse con il gesso sulla terra accanto alle nostre baracche: “Andatevene al vostro Paese o morirete”.
Ma noi un nostro Paese non lo avevamo mai avuto.  
I nostri antenati si erano sempre spostati cercando di fare attenzione a non esaurire le risorse dei luoghi in cui si fermavano. Per secoli molti di loro avevano svolto nobili professioni: erano stati artigiani, ballerini, musici, e per molte popolazioni erano stati dei maestri.
Poi, purtroppo, le cose cambiarono; le città si trasformarono in metropoli, le metropoli in megalopoli e ogni singolo centimetro di terra divenne di proprietà di qualcuno.
Si persero.
I più scaltri strinsero accordi con i criminali locali, si auto proclamarono nostri capi, fecero mali affari con i delinquenti più potenti e iniziarono a sfruttarci.
Il sistema economico mondiale scricchiolava.
E noi, di quel sistema, eravamo lo sporco più evidente. Eravamo la crepa visibile di un mondo che aveva le fondamenta putrefatte.
I borghesi divennero più poveri e, per paura di perdere quello che gli restava, iniziarono a schivarci, a schifarci.
Bruciarono le nostre baracche e impedirono che i nostri figli frequentassero le loro scuole. 
Una mattina, dopo l’ennesima provocazione, decidemmo di metterci in marcia senza una meta. Camminammo per giorni prima di uscire da un agglomerato urbano che sembrava non avesse mai fine. 
Quando giungemmo quassù eravamo stremati e terrorizzati. La terra si muoveva continuamente; era come stare sul cratere di un vulcano pronto a esplodere da un momento all’altro.  
Quel vulcano, però, era l’unico posto dove l’uomo ci avrebbe lasciati in pace.
Così, quando incontrammo Pietro, ci rendemmo conto che forse una vita lì era possibile anche per noi e che, forse, c’era ancora speranza.
Dobbiamo tutto a lui. Ci ha insegnato a sopravvivere e ci ha insegnato che su queste montagne si può essere felici.
E oggi lo siamo, felici. Questa terra abbandonata non ha più un padrone e siamo liberi di calpestarla, di percorrerla, di abbracciarla.
Qui non siamo più dei ladri.

Siamo solo esseri viventi mescolati ad altri esseri viventi.

Via anche alla pagina il Monte Vettore e il sogno di Giufà

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Cammoro

Lasciata alle sue spalle Pupaggi Maja si incammina su di una graziosa stradina che attraversa il bosco; giunge all’incrocio con via de La Spina da dove, volgendo lo sguardo verso l’alto, scorge, su un colle di mille metri, lo splendido borgo di Cammoro. La piccola frazione di Sellano le appare come un pregiatissimo gioiello di mattoni incastonato nel verde declivio.

Allo stesso crocevia Maja incontra un giovane e affascinante cavaliere che si innamora perdutamente di lei in meno di un secondo e le confida di essere in missione segreta per conto del Feudatario del Ducato di Spoleto.
Deve portare informazioni vitali al Vassallo del Gastaldato di Norcia. Informazioni indispensabili alla sopravvivenza di tutta la popolazione.
Purtroppo, la loro amicizia dura solo pochi istanti perché l’avventuriero non può intrattenersi a fare conversazione, ma deve completare la sua missione.
Così mentre il cavaliere, insieme al suo destriero, si allontana tra la polvere, Maja, delusa per il troppo breve incontro, lo saluta con disprezzo.
Lei, di certo, non ha fretta di rimettersi in cammino e, approfittando della bella giornata, decide di sostare per qualche ora nel piccolo paese di Cammoro.
Lì trova riparo, ristoro e del buon vino.
Mangia una gustosa zuppa, poi, si distende su di un verde praticello. Mille e più farfalle le volano attorno. Lei ci gioca un poco e con loro inganna il tempo, prima di rimettersi in viaggio alla ricerca di Morana, della sua casa e del suo destino*. 

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Campello Alto

Campello Alto

Quanti meravigliosi paesini!!!! Sellano, Pupaggi, La SpinaSilvignano, Cammoro e La Biala biancaca. Tra questi non sfigura la bellezza del borgo antico di Campello Alto che Maja si gode al tramonto.

L’antico centro abitato, circondato da ulivi, si trova su di una collinetta alta poco più di 500 metri sul livello del mare. Un castello che svetta sulla cima del colle domina Campello e, mentre lo osserva, Maja immagina quali e quante avventure di cappa e spada si siano svolte in quella fortezza*.

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Silvignano

Silvignano

Silvignano è una frazione di Spoleto adagiata su quelle dolci colline umbre dalle quali Maja non vorrebbe mai separarsi.

Anche in questo paesino, che volge lo sguardo a verdi prati, a campi di grano e a distese di ulivi, il tempo si è fermato. Qui Maja arriva d’estate. Si mette alla ricerca di funghi e tartufi e quando giunge la sera, guardando il tramonto, si ristora grazie alla fresca brezza che fa rumoreggiare le foglie dei lecci.
Ascolta le melodie di quel luogo: il gracchiare delle rane, il cinguettio di qualche volatile e il frinire delle cicale. Giù, a valle, si distende La Bianca, frazione di Campello, meta per Maja di un viaggio passato o, forse, futuro.

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La Spina

La Spina

Maja cammina su via della Spina e attraversa due paesi: Spina Vecchia e Spina Nuova.

I due paesi sono abitati dai Turioni un popolo di asparagi viventi. Sono i discendenti degli antichi asparagi romani, chiamati, al tempo, Illae Spinae. Gli asparagi sono una popolazione pacifica, longilinei, affusolati e dalla carnagione verde. Non sono gli unici abitanti del luogo. Spina Vecchia e Spina Nuova sono popolate anche dai Tartufi, tipi loschi cui sarebbe meglio non dare confidenza. Sono infatti sempre pronti a tramare e a creare scompiglio sociale.
Per proseguire nel suo viaggio alla ricerca di Dafne, Maja non sa qual è la strada giusta da prendere. Ha bisogno di aiuto, ma, poiché gli asparagi stanno facendo la pennichella pomeridiana non le rimane altra scelta che chiedere informazioni ai tartufi.
Questi, rispettando la loro trista fama di esseri infidi e biechi, le danno, ridendo sotto le spore, l’indicazione sbagliata e Maja, inevitabilmente, finisce per perdersi nel bosco. Man mano che avanza, la vegetazione è sempre più fitta, cala la temperatura e la luce si affievolisce.

“Mannaggia a quei Tartufacci. Lo sapevo che non mi dovevo fidare! Guarda dove sono finita!”

Impreca la nostra giovane amica.
Per fortuna un piccolo cinghiale, vedendola sperduta, le si avvicina e le offre il suo aiuto. Così, dopo averla consolata e rassicurata, la invita a salire sulla sua groppa e la accompagna a Silvignano. Da lì sarà facile proseguire per la retta via.
Il pericolo è scampato!
Maja è giunta a destinazione!

Prima di allontanarsi, saluta con affetto e riconoscenza il salvifico cinghiale e gli dice:

“Abbi cura di te mio caro amico. E attento ai cacciatori!”

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La Bianca

La Bianca

Maja arriva a La Bianca, frazione e centro di Campello sul Clitunno, lungo un sentiero circondato da alberi di ulivo. Si siede su di una panchina e scrive una lettera a Mastro Tonio.

“Caro babbo. Qui ci sono dei campi bellissimi con ulivi dalle foglie grigio argento, come salici cimati. Non mi stanco mai del cielo azzurro”.
Più tardi, anche un famoso pittore di nome Vincenzo utilizzerà quelle stesse identiche parole per descrivere alla madre un altro paesaggio, quello della Provenza.
Maja è estasiata dai colori pastello che incorniciano il paese: l’oro del grano, la terra d’umbria dei tronchi e il verde cinabro delle foglie; Li osserva sfiorarsi, confondersi, mescolarsi per poi scomparire verso l’infinito.
Nel mezzo, il paesino: la piccola chiesa, la piazza, il bar. Insomma un tipico abitato, simile e diverso da molti altri già visti da Maja. La Bianca è adagiato sulla Flaminia, la strada consolare romana, percorsa nei secoli dai viaggiatori provenienti da Spoleto e da Foligno. La strada che presto attraverserà anche Maja.
Prima di rimettersi in cammino, però, finisce di scrivere la lettera: “Un giorno tornerò a casa. Ti abbraccerò e ti racconterò delle mie avventure. Mi manchi tanto. Un bacio. La tua piccola Maja”.
Mette la lettera dentro una busta. Fa un fischio. E la affida a un gabbiano telefonico che, prima o poi, la recapiterà a Mastro Tonio.

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