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Monte Vettore

Monte Vettore

C’era la nebbia sul Pian Grande e non si vedeva intorno che per pochi centimetri. Il resto era un umido bianco sporco. Era mattina. Dafne non sapeva l’ora. Le 7, le 8, forse le 9. Nonostante fosse estate faceva molto freddo.
Aveva camminato tra ruderi e vecchie rovine. Lungo il percorso aveva incontrato volpi, donnole, tassi, istrici, ma non aveva mai visto gli umani. Era andata avanti, in salita. Poche e brevi soste: per dormire, per mangiare, poi aveva solo camminato. E nel continuare a farlo, nel mettere un piede davanti all’altro, le venne da pensare a chi, in quegli stessi istanti, nei più diversi e remoti luoghi degli universi stava facendo cose belle; pensava ai pittori, agli artigiani, ai cineasti, agli scrittori. Li immaginava al lavoro e provava invidia. Odiava le loro opere e i loro successi. A lei quelle strade erano state proibite; a lei era stato ordinato di camminare.
Aveva ricevuto il compito di attraversare quei posti desolati e abbandonati dall’uomo, dove la natura, seppur meravigliosa, la rendeva inquieta; dove ogni forma vivente portava con sé il segno di una orribile violenza da cui era stata irrimediabilmente lacerata.

Destro e sinistro, destro e sinistro, in salita. La sua sembrava un’esercitazione militare; un’esercitazione che andava avanti da mesi, anzi da anni e il senso non c’era.
Morana le aveva chiesto di seguire le sue assurde indicazioni e in cambio l’avrebbe lasciata vivere ancora per un po’.
L’illusione che Dafne si era creata per trovare le forze per andare avanti, era che lungo il cammino avrebbe potuto incontrare Maja, ma in realtà stava solo sprecando quel poco tempo che le rimaneva a disposizione in una monotona estenuante scalata verso una cima che sembrava non arrivare mai e dove mai avrebbe potuto riabbracciare la sua amica.
La sua missione, il suo lavoro, era consegnare una lettera. Una lettera che alla fine del Pian Grande, nei pressi di un abbeveratoio, volle tirar fuori dallo zaino. Doveva capire perché stava dedicando una parte della sua vita a quel pezzo di carta. Osservò la busta: il mittente era l’Ufficio per il Progresso per un Mondo Migliore. Il destinatario il vecchio pastore del Monte Vettore. Le venne naturale chiedersi cosa volesse la burocrazia cittadina da un uomo sperduto che viveva in quelle terre remote e che forse era già morto da tempo.

Non resistette. La aprì e la lesse. C’era scritto: “Egregio signor pastore, Ella è l’ultimo abitante di quella parte del Centro Italia che venne devastata dal terremoto. La zona dove vive non è sicura. Non lo è mai stata. La terra continua a tremare e noi non possiamo garantire la Sua incolumità. La invitiamo pertanto ad abbandonare quei luoghi e a recarsi presso i nostri uffici lungo la costa. Provvederemo ad assegnarLe un’abitazione decorosa e a far sì che Ella possa avere una vita tranquilla”.

E così, l’Ufficio per il Progresso per un Mondo Migliore impiegava le proprie risorse per invitare un folle ad andare via da quella terra ostile.  Che senso aveva?  Perché, poi, mandare lei in cima a quella pericolosa montagna?

Dafne non riusciva a darsi una risposta, ma intanto continuava a fare quello che le era stato richiesto. Tornante dopo tornante era giunta nei remoti anfratti dell’Umbria: era passata per Borgo Cerreto, per Norcia, la città senza più campanili, per la oramai inesistente San Pellegrino, e da lì si era inerpicata per la montagna lungo una strada che non era più una strada, ma un miscuglio di crepe, asfalto, erba e terra. In cima ad una vetta aveva visto i resti di quello che, prima delle devastanti scosse, era stato il nuovo Rifugio Perugia.
Poi era scesa sul Pian Grande. Là, per orientarsi nella bianca oscurità della nebbia, si era affidata a una bussola che aveva portato con sé e grazie alla quale era riuscita a raggiungere Forca di Presta, il punto da dove attaccare l’ultima ascesa; l’ascesa  al monte Vettore, vertice estremo di una faglia che tante volte aveva fatto urlare la terra e che tante volte, in quell’inferno al contrario, aveva fatto piangere anche il più infinitesimale organismo.

A Forca di Presta prese un sentiero, più ripido di quelli che aveva fino a quel momento percorso. Sotto i suoi piedi la terra tremava, ma quell’incessante vibrare smise di farle paura. D’improvviso si sentì protetta, cullata, sicura, e non ci mise molto ad arrivare in cima.
Sulla vetta fu testimone di uno spettacolo di rara bellezza. Un enorme cratere, un verde prato puntellato da milioni di stelle alpine, un lago rosso a forma di occhiali e, intorno, una comunità di gitani.

Dafne si presentò con timidezza, poi disse agli zingari che stava cercando il vecchio pastore.
“Forse, parla del signor Pietro”, bisbigliò un bambino nascondendosi dietro la lunga gonna viola e bordò di una giovane a affascinante fanciulla dagli occhi di perla.
Dafne fece cenno di sì.
Allora Jasmine, così si chiamava la bella zingarella, un poco commossa disse che il vecchio eremita era morto quella notte stessa.
La donna invitò Dafne a restare un poco con loro e le indicò una tenda dove si sarebbe potuta ristorare. Quando giunse la sera accesero un fuoco e mangiarono insieme intorno a una grande tovaglia sulla riva del lago. Jasmine raccontò la storia di Pietro e di come quella storia fosse diventata parte integrante della storia del suo popolo.
Dopo il violentissimo terremoto dell’anno 16, il sacro imperatore aveva promesso che avrebbe riportato la vita e l’industria nelle terre colpite dal sisma. Purtroppo, quella promessa non venne mai mantenuta e lentamente, scossa dopo scossa, ogni cittadino venne sradicato dalla propria terra e “accompagnato” in città. Solo Pietro riuscì a resistere; si nascose per anni tra le rovine del vecchio borgo di Castelluccio e poi, braccato, si rifugiò sul cratere del Monte Vettore. Lì visse con poco, a volte con niente. Quando la morsa del gelo era troppo stretta anche per lui, guardingo scendeva sui grandi piani e faceva incetta di erbe selvatiche.
Con il passare del tempo prese l’abitudine di spingersi giù a valle più spesso: anche a primavera e d’estate per seminare le lenticchie e per raccogliere i legumi, i funghi (turini, mazze di tamburo, etc.) e i frutti di bosco.
Così, mentre Pietro l’eremita viveva dimenticando le regole sociali e imparando a conoscere quelle della aspra natura dei Monti Sibillini, noi rom venivamo scacciati con le ruspe da quelle stesse città in cui erano venuti ad abitare, controvoglia, i suoi compaesani; gli amministratori locali prima ci emarginarono nelle discariche e poi ci mandarono via anche da quelle.
A rendere ancor più insostenibile la nostra situazione le invettive di alcuni cittadini, pieni di odio, che ci urlavano contro: “tornatevene a casa vostra”.
Ma noi un a casa non l’avevamo mai avuta.
E capitava spesso persino che di notte qualcuno scrivesse con il gesso sulla terra accanto alle nostre baracche: “Andatevene al vostro Paese o morirete”.
Ma noi un nostro Paese non lo avevamo mai avuto.  
I nostri antenati si erano sempre spostati cercando di fare attenzione a non esaurire le risorse dei luoghi in cui si fermavano. Per secoli molti di loro avevano svolto nobili professioni: erano stati artigiani, ballerini, musici, e per molte popolazioni erano stati dei maestri.
Poi, purtroppo, le cose cambiarono; le città si trasformarono in metropoli, le metropoli in megalopoli e ogni singolo centimetro di terra divenne di proprietà di qualcuno.
Si persero.
I più scaltri strinsero accordi con i criminali locali, si auto proclamarono nostri capi, fecero mali affari con i delinquenti più potenti e iniziarono a sfruttarci.
Il sistema economico mondiale scricchiolava.
E noi, di quel sistema, eravamo lo sporco più evidente. Eravamo la crepa visibile di un mondo che aveva le fondamenta putrefatte.
I borghesi divennero più poveri e, per paura di perdere quello che gli restava, iniziarono a schivarci, a schifarci.
Bruciarono le nostre baracche e impedirono che i nostri figli frequentassero le loro scuole. 
Una mattina, dopo l’ennesima provocazione, decidemmo di metterci in marcia senza una meta. Camminammo per giorni prima di uscire da un agglomerato urbano che sembrava non avesse mai fine. 
Quando giungemmo quassù eravamo stremati e terrorizzati. La terra si muoveva continuamente; era come stare sul cratere di un vulcano pronto a esplodere da un momento all’altro.  
Quel vulcano, però, era l’unico posto dove l’uomo ci avrebbe lasciati in pace.
Così, quando incontrammo Pietro, ci rendemmo conto che forse una vita lì era possibile anche per noi e che, forse, c’era ancora speranza.
Dobbiamo tutto a lui. Ci ha insegnato a sopravvivere e ci ha insegnato che su queste montagne si può essere felici.
E oggi lo siamo, felici. Questa terra abbandonata non ha più un padrone e siamo liberi di calpestarla, di percorrerla, di abbracciarla.
Qui non siamo più dei ladri.

Siamo solo esseri viventi mescolati ad altri esseri viventi.

Via anche alla pagina il Monte Vettore e il sogno di Giufà

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