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Primavalle, la borgata del sapone

Dopo la drammatica avventura vissuta al Parco del Santa Maria della Pietà, Maja e Dafne passeggiano e si rilassano un poco per le strade e i giardini di una borgata romana a loro ancora sconosciuta; una borgata costruita su una montagna fatta di sapone. Ogni cosa in quel posto è incredibilmente profumata, anche i rifiuti! 

In questa terra dal profumo di marsiglia le due amiche sembrano finalmente aver trovato un po’ di pace e tranquillità! Ma mentre chiacchierano del più e del meno (sfidandosi a risolvere complesse operazioni di aritmetica) sedute su un’altalena, una volpe va loro incontro e, dopo essersi presentata (si chiama Pizzutella), inizia a raccontargli una storia triste e malinconica: “Una volta, tanto tempo fa, in questo luogo magico c’era una specie di astronave spaziale chiamata Galaxy. Chiunque entrasse in quel mezzo interplanetario si trovava immediatamente a viaggiare oltre i confini del suono. O almeno, questo era quello che credeva stando là dentro. In realtà nessuno ha mai capito se in quella specie di macchina del tempo e dello spazio si viaggiasse davvero o si sognasse. Ci si rimaneva sempre, minuto più minuto meno, per un paio d’ore e quando poi si usciva, facendo ritorno al mondo reale, ci si sentiva vivi; a volte malinconici altre felici, ma sempre vivi.
Purtroppo, un giorno più triste e buio di altri, un mostro gigante attraversò il quartiere e distrusse, calpestandola con il suo enorme piede destro, quell’astronave che tanta gente aveva fatto sognare”.
Qui, piangendo, la volpe interruppe il suo racconto; chiese a Maja e Dafne se avessero tempo e voglia di aiutarla a ricostruire l’astronave.
Le due amiche, dopo uno sguardo di intesa, decisero di fermarsi e diedero una mano alla volpe e agli abitanti di Primavalle per rimettere in piedi il vecchio e prodigioso Galaxy.

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Idroscalo del Lido di Ostia

idroscalo bottiglia

“Un tempo da qui decollavano gli idrovolanti e gli aerei anfibi. Allora credevamo di essere un faro per il resto del mondo. Osservavamo gli altri popoli dall’alto al basso e associavamo la nostra nazione alla parola civiltà.

Sapevamo benissimo che le nostre azioni non ci avrebbero portato a un futuro felice, ma non immaginavamo che saremmo potuti diventare complici, anzi responsabili, di uno dei più tragici genocidi della storia. Eravamo fascisti. Chiunque non ha disobbedito lo era, non solo le camicie nere, i dirigenti, i politici, ma anche chi non si è opposto a quanto stava per accadere.
Dopo, però, ci siamo vergognati di quella macchia, abbiamo fatto carte false per dimostrare che eravamo cambiati. Servendoci della pubblicità abbiamo raccontato un Paese diverso, sereno, colorato, democratico. Ma, incredibilmente, abbiamo continuato a ripetere gli stessi errori;  consideravamo la nostra felicità universale e, non curandoci di quanto accadeva a Bombay o all’Idroscalo di Ostia, abbiamo ripetutamente schivato le richieste di aiuto dei disperati, degli ultimi.
Sì, è vero, dubbio e coscienza albergavano nella mente degli intellettuali, ma il Capitale era riuscito a rendere schiavi anche loro trasformando le idee in materia e la rivoluzione in possesso. La distanza incolmabile che correva tra il proletariato e il partito ha impedito che qualcosa cambiasse davvero e neanche il corvo, il poeta, è riuscito nella propria missione. Neppure su un campo di pallone ha stabilito quell’intesa necessaria a distruggere un sistema sempre più proiettato verso una nuova preistoria. Moriva qui, tra la polvere e le baracche che non si sono mai trasformate in confortevoli dimore, Pier Paolo Pasolini. Il suo corpo violentato dagli pneumatici in movimento è stato consegnato alla nostra memoria coperto di fango. Una memoria, troppo fragile per ricordare, per comprendere, la natura di quel delitto.
Oggi la resistenza è lontana e nascosti sono i poeti civili. Noi continuiamo a decomporci nella luce straziante del mare, mentre i cittadini dimenticati non sanno più come esprimere la propria disperazione. Disorientati annaspano in un mondo in cui è sempre più sfumato il confine tra un fascista, un borghese e un intellettuale”.

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(Un angolo de)iQuartieri Spagnoli

C’è un punto nell’universo in cui si incontrano due strade.
Bell’affare, penserete voi, di luoghi così ce ne sono un’infinità!
Ma, vi assicuriamo (in caso in cui dovessimo essere smentiti sarete rimborsati) che questo luogo è unico e speciale. Dove si trova? Nella splendida Napoli e, precisamente, nei Quartieri Spagnoli.

Andiamo a visitarlo e, come spesso accade quando ci troviamo nella città partenopea ci affidiamo alla guida del poeta Pasquale con il quale ci addentriamo per le vie dei “Quartieri”. Incontriamo una comoda sedia (su cui ci riposiamo a turno un po’ tutti), cartelli stradali che indicano contemporaneamente più di una direzione, divieti di sosta in cima a delle scale.
Ogni più piccola cosa e ogni suo dettaglio si presentano con incantevoli colori e con forme attraenti; sono, al di là di ogni ragionevole dubbio, degni di ammirazione.
Persi a sorprenderci e a meravigliarci, ora per un manifesto, ora per una bicicletta, giungiamo all’ingresso di un bar. Pasquale ci invita ad entrare, promettendoci che solo qui si può sorseggiare il vero caffè napoletano e che, senza dubbio alcuno, qualcosa di magico accadrà.
Varchiamo la soglia e… davanti a noi appaiono persone di un’epoca remota.
Il tutto sembrerebbe inverosimile, ma un calendario, affisso sul muro dietro al bancone, illustra il mese di aprile del 1908.
Ci emozioniamo, stiamo per vivere una nuova avventura.

Pasquale, per nulla sorpreso, continua a parlarci e ci dice che il bar è il luogo in cui popolo e aristocrazia si mescolano; è difatti per questo motivo, ci spiega, che ci sono due entrate.
Una porta si rivolge alla strada che sale verso la parte ricca della città, mentre l’altra a quella che scende verso quella povera.
A sottolineare le sue parole l’ingresso di braccianti, nulla tenenti, accattoni, ladruncoli da un passaggio e quello di avvocati, medici, professori e nobili dall’altro.
In pochi istanti il bar si trasforma in un luogo chimerico dove il notaio commenta con il ladruncolo l’ultimo fatto di sangue avvenuto nella vicina Capodimonte, il bracciante chiede consiglio al medico per un problema della sua fedele compagna vacca e il professore prega l’accattone di recitargli la sua ultima poesia.
A fare da cornice a questa sinfonia la fragranza del caffé.
Il barista è un vero e proprio direttore d’orchestra che rende il brusio del vociare armonico e naturale.
Lo vediamo destreggiarsi, aggiungendo un po’ di zucchero a questa o a quella tazzina e proponendo un po’ a tutti le seducenti paste preparate dal vicino fornaio.
Seduti a un tavolino, un avvocato e un operaio sfogliano le pagine del Mattino; prima l’avvocato aggiorna l’operaio sull’evoluzione di una questione legale, poi l’operaio spiega all’avvocato come ha risolto il guasto del lavandino del suo bagno.
Il tempo trascorre allegramente e noi ci gustiamo la scena, almeno finché un canarino di pezza decide che è giunto il momento di uscire fuori dal proprio orologio a cucù, ricordando che sono le 3.
Sconsolati, un po’ alla volta, tutti escono dal bar e ritornano alle proprie attività seguiti dall’odore di caffè,una nuvola di malinconia che sfuma nella città.
Il barista saluta tutti e conclude la sua esibizione rivolgendoci lo sguardo e strizzandoci un complice occhiolino.
Usciamo anche noi, ma solo dopo averlo ringraziato; in realtà ci verrebbe da applaudirlo, ma alla fine ci limitiamo a salutarlo.
Pasquale ci suggerisce di passare per la porta da cui non siamo entrati. Fuori ci aspettano altre sedie, altri bizzarri cartelli stradali, altre biciclette abbandonate per la via.
Noi sorridiamo, ma non possiamo non provare nostalgia verso un luogo in cui si narra l’ozio senza soluzione di continuità.

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