C’era una volta un ragazzo che veniva dal Mali. Era il papà di una bimba bellissima.
Aveva deciso di affrontare un lungo e pericoloso viaggio per mantenere una promessa che aveva fatto a sua figlia.
Un giorno, di qualche anno fa, lei, guardandolo con i suoi occhioni neri, gli aveva chiesto: “Papà, perché siamo così poveri? Lo saremo per sempre?”
E lui, per rassicurarla, la aveva detto che sarebbe arrivato un momento in cui non avrebbero più vissuto nella miseria e che presto avrebbero avuto un futuro dignitoso.
Un futuro in cui sarebbero stati felici.
Prima, però, si sarebbero dovuti separare.
A lei venne da piangere, ma diede fiducia a suo padre; lo abbracciò e, prima della partenza, lo salutò con uno dei baci più dolci che una bimba abbia mai dato a un proprio genitore.
Soumaila, così si chiamava il giovane uomo, era pronto per affrontare il suo lungo viaggio.
Sarebbero trascorsi degli anni, ma alla fine sarebbe tornato da lei.
Sarebbe tornato nella sua terra e lì sarebbe vissuto per sempre felice e contento con la sua famiglia.
Dunque, Soumaila, spaventato e senza certezze, iniziò la sua avventura verso una meta sconosciuta che raggiunse solamente dopo un lungo, doloroso e pericoloso viaggio.
La sua casa divenne una pianura sconfinata vicino al mare.
La notte un pezzo di terra dove dormire, il giorno il lavoro.
Un euro e cinquanta centesimi, due euro, tre nei giorni in cui era più fortunato.
Era questa la paga oraria con cui veniva retribuita la sua fatica nei campi della piana di Gioia Tauro nei pressi del Comune di San Ferdinando.
La vita era dura per lui. Ma non gli importava. Doveva realizzare la promessa fatta a sua figlia.
E anche se dormiva senza un tetto e in mezzo al fango, non era triste.
Nella sua mente e nel suo cuore c’erano sempre la sua terra e la sua famiglia.
E questo gli bastava per essere felice.
Aveva un progetto ed era certo che, prima o poi, lo avrebbe portato a compimento.
Intanto raccoglieva kiwi, arance e mandarini, insieme a molti migranti: africani, arabi, asiatici.
Bisognerebbe ricordare che da quella stessa terra molti italiani erano fuggiti via – o se ne stavano andando – per cercare di realizzare i loro sogni in un altro altrove.
Migravano a nord perché, dicevano: “Qua c’è poca dignità nel lavoro”.
Molte fabbriche erano state chiuse per mafia – che lì chiamavano la ‘ndrangheta, la santa, la picciotteria.
Si narra che diversi capannoni fossero stati addirittura utilizzati come coperture per discariche abusive di rifiuti tossici.
Quei rifiuti che, direttamente o indirettamente, provocano malattie e morte senza guardare in faccia a nessuno.
Soumaila raccoglieva frutta per 10, 12 ore al giorno, senza sosta.
Era questo quello che gli chiedevano i padroni, i caporali.
E la fatica si faceva sentire.
Ma Soumaila pensava sempre agli occhi dolci di sua figlia e in quello sguardo trovava le energie per andare avanti.
Ma non tutti i suoi compagni di lavoro riuscivano a resistere: alcuni erano sempre più stanchi, affaticati, depressi.
Più il tempo passava, più la loro pacchia si colorava di grigio, di sofferenza e di dolore.
Non era giusto.
Soumaila doveva fare qualcosa.
E anche se questo significava rallentare, rimandare la realizzazione del suo sogno, non poteva far finta di niente.
Pensate un po’… si era messo in testa che la condizione sua e dei suoi compagni, che tanto ricordava quella degli schiavi, sarebbe dovuta migliorare.
E iniziò a parlare con i padroni, con i caporali.
Iniziò a chiedere loro più diritti e maggiori tutele.
Una paga meno mortificante, condizioni di lavoro non infernali.
Ma ai padroni non piacevano questi discorsi. Ci avrebbero rimesso una parte del proprio guadagno.
Ed è forse per questo motivo – secondo quanto racconta una leggenda – che dai loro occhi non sarebbe scesa neanche una lacrima quando vennero a sapere che un uomo, a bordo di una vecchia auto, aveva esploso un colpo di fucile colpendo mortalmente Soumaila.
Con lui svaniva anche il sogno di una promessa. La promessa che un padre aveva fatto a sua figlia.
Oggi, questa storia nessuno la vuole più ascoltare.
Forse, perché se si volesse comprendere chi era veramente Soumaila si perderebbero molte certezze e non si saprebbe più contro chi prendersela.
Non si saprebbe più a chi dare la colpa dei fallimenti di un sistema che divide e crea povertà.
Noi sappiamo solo che Soumaila era un essere umano.
Un uomo che stava cercando delle soluzioni per migliorare la condizione dei lavoratori nei campi.
Un uomo che stava lavorando per cercare di dare un futuro migliore a sua figlia.
E che un semplice, banale e tragico colpo di lupara glielo ha impedito.
Ripetendo la solita vecchia storia degli esseri umani.
Una storia in cui la miseria fa troppo paura per essere affrontata, compresa, abbracciata.
Una storia in cui si rimane in silenzio quando quella miseria diventa un impiccio e si preferisce abbassare lo sguardo quando interviene la violenza a far pulizia.
C’era una volta un mondo sbagliato, ma ovviamente parliamo di tanto, ma tanto, tempo fa…