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Dai Quartieri alla Certosa di San Martino

Maja e Dafne si ritrovano, ancora una volta, a camminare per i vicoli della splendida Napoli. Vie, palazzi, monumenti si presentano come tanti pezzi irregolari di un gigantesco mosaico. Un’armonia sporca fatta di stracci, di antenne e di lamiere di amianto corrose dalla ruggine. Dalla lontana Bisanzio giunge ai cuori delle due ragazze l’eco di un’esplosione insieme al dolore delle vittime.
Le guerre, foriere di devastazione e abbrutimento, continuano a imperversare nei Paesi orientali; i profughi navigano il turbolento oceano in cerca di una terra in cui chiedere asilo, ma vengono respinti dai cannoni delle navi da difesa degli stati frontalieri.
Ogni giorni l’aria si fa più pesante.
La bellezza della città partenopea non basta più a restituire il sorriso a Maja e Dafne; È come se fossero dentro un vortice irrefrenabile da cui sia oramai impossibile uscire. Avvolte da questa sensazione, dopo aver camminato a lungo per il corso, le due giovani si siedono ai piedi della Certosa di San Martino; Maja posa la sua testa sulla spalla destra di Dafne e insieme contemplano il panorama; intanto, la voce dei venti trasporta alle loro orecchie un affollato e confuso brusio composto dalle grida provenienti dal vicino stadio e dal rumore disperato della sofferenza dell’umanità.

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(Un angolo de)iQuartieri Spagnoli

C’è un punto nell’universo in cui si incontrano due strade.
Bell’affare, penserete voi, di luoghi così ce ne sono un’infinità!
Ma, vi assicuriamo (in caso in cui dovessimo essere smentiti sarete rimborsati) che questo luogo è unico e speciale. Dove si trova? Nella splendida Napoli e, precisamente, nei Quartieri Spagnoli.

Andiamo a visitarlo e, come spesso accade quando ci troviamo nella città partenopea ci affidiamo alla guida del poeta Pasquale con il quale ci addentriamo per le vie dei “Quartieri”. Incontriamo una comoda sedia (su cui ci riposiamo a turno un po’ tutti), cartelli stradali che indicano contemporaneamente più di una direzione, divieti di sosta in cima a delle scale.
Ogni più piccola cosa e ogni suo dettaglio si presentano con incantevoli colori e con forme attraenti; sono, al di là di ogni ragionevole dubbio, degni di ammirazione.
Persi a sorprenderci e a meravigliarci, ora per un manifesto, ora per una bicicletta, giungiamo all’ingresso di un bar. Pasquale ci invita ad entrare, promettendoci che solo qui si può sorseggiare il vero caffè napoletano e che, senza dubbio alcuno, qualcosa di magico accadrà.
Varchiamo la soglia e… davanti a noi appaiono persone di un’epoca remota.
Il tutto sembrerebbe inverosimile, ma un calendario, affisso sul muro dietro al bancone, illustra il mese di aprile del 1908.
Ci emozioniamo, stiamo per vivere una nuova avventura.

Pasquale, per nulla sorpreso, continua a parlarci e ci dice che il bar è il luogo in cui popolo e aristocrazia si mescolano; è difatti per questo motivo, ci spiega, che ci sono due entrate.
Una porta si rivolge alla strada che sale verso la parte ricca della città, mentre l’altra a quella che scende verso quella povera.
A sottolineare le sue parole l’ingresso di braccianti, nulla tenenti, accattoni, ladruncoli da un passaggio e quello di avvocati, medici, professori e nobili dall’altro.
In pochi istanti il bar si trasforma in un luogo chimerico dove il notaio commenta con il ladruncolo l’ultimo fatto di sangue avvenuto nella vicina Capodimonte, il bracciante chiede consiglio al medico per un problema della sua fedele compagna vacca e il professore prega l’accattone di recitargli la sua ultima poesia.
A fare da cornice a questa sinfonia la fragranza del caffé.
Il barista è un vero e proprio direttore d’orchestra che rende il brusio del vociare armonico e naturale.
Lo vediamo destreggiarsi, aggiungendo un po’ di zucchero a questa o a quella tazzina e proponendo un po’ a tutti le seducenti paste preparate dal vicino fornaio.
Seduti a un tavolino, un avvocato e un operaio sfogliano le pagine del Mattino; prima l’avvocato aggiorna l’operaio sull’evoluzione di una questione legale, poi l’operaio spiega all’avvocato come ha risolto il guasto del lavandino del suo bagno.
Il tempo trascorre allegramente e noi ci gustiamo la scena, almeno finché un canarino di pezza decide che è giunto il momento di uscire fuori dal proprio orologio a cucù, ricordando che sono le 3.
Sconsolati, un po’ alla volta, tutti escono dal bar e ritornano alle proprie attività seguiti dall’odore di caffè,una nuvola di malinconia che sfuma nella città.
Il barista saluta tutti e conclude la sua esibizione rivolgendoci lo sguardo e strizzandoci un complice occhiolino.
Usciamo anche noi, ma solo dopo averlo ringraziato; in realtà ci verrebbe da applaudirlo, ma alla fine ci limitiamo a salutarlo.
Pasquale ci suggerisce di passare per la porta da cui non siamo entrati. Fuori ci aspettano altre sedie, altri bizzarri cartelli stradali, altre biciclette abbandonate per la via.
Noi sorridiamo, ma non possiamo non provare nostalgia verso un luogo in cui si narra l’ozio senza soluzione di continuità.

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