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Gli alberi di Campo dell’Osso

Campo dell'Osso

Valina trascorse diversi giorni, dopo aver sconfitto il terribile Stregone delle Nevi Invernali (vedi la favola di Valina – Monte Livata), a parlare con gli alberi centenari di Campo dell’Osso. Ognuno aveva tante storie da raccontare; il pioppo ne sapeva due o tre molto divertenti, il leccio una decina che facevano morir di paura, ma una più delle altre riuscì a riempire il cuore e l’attenzione della bella eroina e a narrarla fu Rovere la quercia più anziana del luogo.

Il suo racconto cominciò così: “C’era una volta, tanti, tanti, ma proprio tanti anni fa, una bambina dolce e graziosa, proprio come te mia cara Valina. Questa bimba era stata portata nel nostro bosco da una cicogna un po’ miope. Il volatile aveva confuso le nostre chiome con i capelli di un gruppo raggae attendato lungo il litorale di Sabaudia. Fu così che insieme alle orchidee decidemmo di fargli da zii e la chiamammo Soldanella. La piccola cresceva rapidamente e ben presto imparò a stormire, proprio come noi, facendo passare il vento tra i suoi folti capelli (ereditati dai suoi veri genitori).
All’età di quattordici anni Soldanella aveva già costruito 25 case sugli alberi e riusciva a saltare da una chioma all’altra anche se distanti cinque metri tra loro. Con lei eravamo felici; il suo sorriso, la sua voce, le sue capriole illuminavano in modo speciale le nostre vecchie cortecce.
Un giorno, un ragazzo si spinse a esplorare il campo e il suo sguardò incrociò quello di Soldanella. La fanciulla aveva da poco compiuto il suo diciottesimo anno di età e nel vedere per la prima volta nella sua vita un giovane e affascinante coetaneo della sua specie venne inevitabilmente scossa da un brivido e dalla curiosità. Rodomonte, questo era il nome del baldo avventuriero, trovandosi di fronte la bella Soldanella non venne meno alla sua fama di gran seduttore. Cambiò la forma dei suoi occhi e li trasformò in due cuoricini; quindi, dopo essersi presentato, – Sono Rodomonte cavaliere delle terre dell’Aniene, amante della natura e delle selve – iniziò a riempire di complimenti Soldanella e a lodare la bellezze di quel posto. Sodanella che non era abituata agli esseri umani non sospettò che quel ragazzo gentile le potesse mentire, gli permise di corteggiarla e gli rivelò ogni segreto più prezioso del suo amato bosco.
In realtà, Rodomonte era un vile mercenario; aveva ricevuto dall’Imperatore delle Oscure Paludi Infernali il compito di disboscare quelle terre per costruire un’autostrada che collegasse i Simbruini direttamente con il centro dell’inferno. Con l’inganno, esprimendo a Soldanella il desiderio di voler trascorrere del tempo da solo con lei, riuscì a farsi confidare quali fossero il giorno e l’ora in cui tutto il bosco si sarebbe addormentato. Fino a quel momento era a conoscenza soltanto del fatto che, per sessanta minuti, gli alberi sarebbero precipitati in un sonno talmente profondo che neanche il più terribile dei terremoti sarebbe riuscito a interrompere (occasione ideale per perseguire il diabolico piano dell’Imperatore), ma non sapeva quando questa ghiotta opportunità si sarebbe verificata. 
Quando Soldanella si presentò all’appuntamento non trovò un giovane innamorato con gli occhi a cuoricino, ma un esercito di demoni boscaioli pronti a devastare e a distruggere ogni forma di vita. Non c’era più tempo per avvertire i suoi amici; il destino di Campo dell’Osso dipendeva da lei. Dai suoi genitori biologici Soldanella non aveva ereditato solo i folti capelli, ma anche una voce magica; e fu quella voce che le permise di salvare i suoi amici. Intonò una nota acutissima che bloccò l’avanzata dei bascaioli assassini per un’ora. Quando si esaurì il suo canto il bosco si risvegliò e poté dunque scacciar via i demoniaci assalitori.
Purtroppo, a causa dello sforzo la bella fanciulla perse tutte le energie, il suo corpo divenne esile come uno stelo e i suoi capelli si tinsero di viola.
Si trasformò in un piccolo fiore che ogni primavera continua a sbocciare sempre sullo stesso punto del prato di Campo dell’Osso. Proprio lì, accanto a te mia dolce Valina, e così per alcuni giorni ogni anno tutti noi siamo nuovamente felici.

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Gran Sasso d’Italia

Mentre il popolo veniva abbagliato dal riflesso delle luci puntate sui polsi del ricercato appena sbarcato in città, Maja passeggiava felice per il vasto altopiano abruzzese; al tramonto si era, poi, attardata ad ammirare lo splendore di quell’enorme e meraviglioso masso di pietra che da secoli, come un titano, svettava tra le cime più alte dell’Appennino.

Sugli schermi l’immagine spettacolarizzata del condannato era stata mostrata per ore, commentata da poche e ripetute parole che non erano riuscite minimamente ad avvicinarsi al concetto di verità, ma che, al contrario, erano servite ad aggiungere ulteriore confusione tra i concetti di delitto, giustizia,  legge e barbarie.
Infine, nel momento in cui la tenue luce del sole crepuscolare, sostenuta da un complice vento di tramontana, era riuscita a restituire allo sguardo della nostra eroina il ritratto perfetto dell’armonia, della pace e della bellezza, l’individuo, che non aveva mai pienamente capito se in gioventù fosse stato un criminale o un rivoluzionario, realizzò che più di ogni altro aveva servito il potere, a lui astutamente affidatosi per insinuare negli animi il desiderio di ordine e il sentimento della paura.

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Monte Vettore

Monte Vettore

C’era la nebbia sul Pian Grande e non si vedeva intorno che per pochi centimetri. Il resto era un umido bianco sporco. Era mattina. Dafne non sapeva l’ora. Le 7, le 8, forse le 9. Nonostante fosse estate faceva molto freddo.
Aveva camminato tra ruderi e vecchie rovine. Lungo il percorso aveva incontrato volpi, donnole, tassi, istrici, ma non aveva mai visto gli umani. Era andata avanti, in salita. Poche e brevi soste: per dormire, per mangiare, poi aveva solo camminato. E nel continuare a farlo, nel mettere un piede davanti all’altro, le venne da pensare a chi, in quegli stessi istanti, nei più diversi e remoti luoghi degli universi stava facendo cose belle; pensava ai pittori, agli artigiani, ai cineasti, agli scrittori. Li immaginava al lavoro e provava invidia. Odiava le loro opere e i loro successi. A lei quelle strade erano state proibite; a lei era stato ordinato di camminare.
Aveva ricevuto il compito di attraversare quei posti desolati e abbandonati dall’uomo, dove la natura, seppur meravigliosa, la rendeva inquieta; dove ogni forma vivente portava con sé il segno di una orribile violenza da cui era stata irrimediabilmente lacerata.

Destro e sinistro, destro e sinistro, in salita. La sua sembrava un’esercitazione militare; un’esercitazione che andava avanti da mesi, anzi da anni e il senso non c’era.
Morana le aveva chiesto di seguire le sue assurde indicazioni e in cambio l’avrebbe lasciata vivere ancora per un po’.
L’illusione che Dafne si era creata per trovare le forze per andare avanti, era che lungo il cammino avrebbe potuto incontrare Maja, ma in realtà stava solo sprecando quel poco tempo che le rimaneva a disposizione in una monotona estenuante scalata verso una cima che sembrava non arrivare mai e dove mai avrebbe potuto riabbracciare la sua amica.
La sua missione, il suo lavoro, era consegnare una lettera. Una lettera che alla fine del Pian Grande, nei pressi di un abbeveratoio, volle tirar fuori dallo zaino. Doveva capire perché stava dedicando una parte della sua vita a quel pezzo di carta. Osservò la busta: il mittente era l’Ufficio per il Progresso per un Mondo Migliore. Il destinatario il vecchio pastore del Monte Vettore. Le venne naturale chiedersi cosa volesse la burocrazia cittadina da un uomo sperduto che viveva in quelle terre remote e che forse era già morto da tempo.

Non resistette. La aprì e la lesse. C’era scritto: “Egregio signor pastore, Ella è l’ultimo abitante di quella parte del Centro Italia che venne devastata dal terremoto. La zona dove vive non è sicura. Non lo è mai stata. La terra continua a tremare e noi non possiamo garantire la Sua incolumità. La invitiamo pertanto ad abbandonare quei luoghi e a recarsi presso i nostri uffici lungo la costa. Provvederemo ad assegnarLe un’abitazione decorosa e a far sì che Ella possa avere una vita tranquilla”.

E così, l’Ufficio per il Progresso per un Mondo Migliore impiegava le proprie risorse per invitare un folle ad andare via da quella terra ostile.  Che senso aveva?  Perché, poi, mandare lei in cima a quella pericolosa montagna?

Dafne non riusciva a darsi una risposta, ma intanto continuava a fare quello che le era stato richiesto. Tornante dopo tornante era giunta nei remoti anfratti dell’Umbria: era passata per Borgo Cerreto, per Norcia, la città senza più campanili, per la oramai inesistente San Pellegrino, e da lì si era inerpicata per la montagna lungo una strada che non era più una strada, ma un miscuglio di crepe, asfalto, erba e terra. In cima ad una vetta aveva visto i resti di quello che, prima delle devastanti scosse, era stato il nuovo Rifugio Perugia.
Poi era scesa sul Pian Grande. Là, per orientarsi nella bianca oscurità della nebbia, si era affidata a una bussola che aveva portato con sé e grazie alla quale era riuscita a raggiungere Forca di Presta, il punto da dove attaccare l’ultima ascesa; l’ascesa  al monte Vettore, vertice estremo di una faglia che tante volte aveva fatto urlare la terra e che tante volte, in quell’inferno al contrario, aveva fatto piangere anche il più infinitesimale organismo.

A Forca di Presta prese un sentiero, più ripido di quelli che aveva fino a quel momento percorso. Sotto i suoi piedi la terra tremava, ma quell’incessante vibrare smise di farle paura. D’improvviso si sentì protetta, cullata, sicura, e non ci mise molto ad arrivare in cima.
Sulla vetta fu testimone di uno spettacolo di rara bellezza. Un enorme cratere, un verde prato puntellato da milioni di stelle alpine, un lago rosso a forma di occhiali e, intorno, una comunità di gitani.

Dafne si presentò con timidezza, poi disse agli zingari che stava cercando il vecchio pastore.
“Forse, parla del signor Pietro”, bisbigliò un bambino nascondendosi dietro la lunga gonna viola e bordò di una giovane a affascinante fanciulla dagli occhi di perla.
Dafne fece cenno di sì.
Allora Jasmine, così si chiamava la bella zingarella, un poco commossa disse che il vecchio eremita era morto quella notte stessa.
La donna invitò Dafne a restare un poco con loro e le indicò una tenda dove si sarebbe potuta ristorare. Quando giunse la sera accesero un fuoco e mangiarono insieme intorno a una grande tovaglia sulla riva del lago. Jasmine raccontò la storia di Pietro e di come quella storia fosse diventata parte integrante della storia del suo popolo.
Dopo il violentissimo terremoto dell’anno 16, il sacro imperatore aveva promesso che avrebbe riportato la vita e l’industria nelle terre colpite dal sisma. Purtroppo, quella promessa non venne mai mantenuta e lentamente, scossa dopo scossa, ogni cittadino venne sradicato dalla propria terra e “accompagnato” in città. Solo Pietro riuscì a resistere; si nascose per anni tra le rovine del vecchio borgo di Castelluccio e poi, braccato, si rifugiò sul cratere del Monte Vettore. Lì visse con poco, a volte con niente. Quando la morsa del gelo era troppo stretta anche per lui, guardingo scendeva sui grandi piani e faceva incetta di erbe selvatiche.
Con il passare del tempo prese l’abitudine di spingersi giù a valle più spesso: anche a primavera e d’estate per seminare le lenticchie e per raccogliere i legumi, i funghi (turini, mazze di tamburo, etc.) e i frutti di bosco.
Così, mentre Pietro l’eremita viveva dimenticando le regole sociali e imparando a conoscere quelle della aspra natura dei Monti Sibillini, noi rom venivamo scacciati con le ruspe da quelle stesse città in cui erano venuti ad abitare, controvoglia, i suoi compaesani; gli amministratori locali prima ci emarginarono nelle discariche e poi ci mandarono via anche da quelle.
A rendere ancor più insostenibile la nostra situazione le invettive di alcuni cittadini, pieni di odio, che ci urlavano contro: “tornatevene a casa vostra”.
Ma noi un a casa non l’avevamo mai avuta.
E capitava spesso persino che di notte qualcuno scrivesse con il gesso sulla terra accanto alle nostre baracche: “Andatevene al vostro Paese o morirete”.
Ma noi un nostro Paese non lo avevamo mai avuto.  
I nostri antenati si erano sempre spostati cercando di fare attenzione a non esaurire le risorse dei luoghi in cui si fermavano. Per secoli molti di loro avevano svolto nobili professioni: erano stati artigiani, ballerini, musici, e per molte popolazioni erano stati dei maestri.
Poi, purtroppo, le cose cambiarono; le città si trasformarono in metropoli, le metropoli in megalopoli e ogni singolo centimetro di terra divenne di proprietà di qualcuno.
Si persero.
I più scaltri strinsero accordi con i criminali locali, si auto proclamarono nostri capi, fecero mali affari con i delinquenti più potenti e iniziarono a sfruttarci.
Il sistema economico mondiale scricchiolava.
E noi, di quel sistema, eravamo lo sporco più evidente. Eravamo la crepa visibile di un mondo che aveva le fondamenta putrefatte.
I borghesi divennero più poveri e, per paura di perdere quello che gli restava, iniziarono a schivarci, a schifarci.
Bruciarono le nostre baracche e impedirono che i nostri figli frequentassero le loro scuole. 
Una mattina, dopo l’ennesima provocazione, decidemmo di metterci in marcia senza una meta. Camminammo per giorni prima di uscire da un agglomerato urbano che sembrava non avesse mai fine. 
Quando giungemmo quassù eravamo stremati e terrorizzati. La terra si muoveva continuamente; era come stare sul cratere di un vulcano pronto a esplodere da un momento all’altro.  
Quel vulcano, però, era l’unico posto dove l’uomo ci avrebbe lasciati in pace.
Così, quando incontrammo Pietro, ci rendemmo conto che forse una vita lì era possibile anche per noi e che, forse, c’era ancora speranza.
Dobbiamo tutto a lui. Ci ha insegnato a sopravvivere e ci ha insegnato che su queste montagne si può essere felici.
E oggi lo siamo, felici. Questa terra abbandonata non ha più un padrone e siamo liberi di calpestarla, di percorrerla, di abbracciarla.
Qui non siamo più dei ladri.

Siamo solo esseri viventi mescolati ad altri esseri viventi.

Via anche alla pagina il Monte Vettore e il sogno di Giufà

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Il monte Livata

A 1400 metri d’altezza, sulla cima più alta del Monte Livata nel Parco Regionale dei Monti Simbruini, viveva in una grotta il cugino di Morana, il terribile Stregone delle Nevi Invernali. Lo stregone, una notte all’anno, usciva dalla sua insolita dimora e rapiva la bambina più bella dei villaggi vicini. La portava dentro la grotta, la uccideva e ne beveva il sangue. Grazie a un incantesimo arcano, legato a questi infanticidi, si manteneva eternamente giovane e diventava sempre più potente.

Poco distante, nella capanna di mezzo del villaggio delle Tre Capanne, cresceva Valina che, a detta di tutti, era la bimba più bella di sempre. I genitori, una coppia di collaudatori di videogames, erano molto preoccupati, perché avevano timore che lo Stregone delle Nevi Invernali venisse a rapirla. 

Così, quando cadde la prima neve, diedero un sacco a Valina e le dissero di fuggire per i boschi. Valina ringraziò i genitori per l’affetto che le avevano dimostrato fino a quel momento, li abbracciò e iniziò la sua avventura, da sola, nel freddo e nella bufera. Lungo la strada c’erano dei caldi rifugi, ma era troppo rischioso fermarcisi. 

Valina camminava da tempo ed era ormai allo stremo delle forze quando in una vallata incontrò una faina, una donnola e un femmina di tasso, rimaste incagliate in delle trappole per orchi cattivi. “O bella Valina – dissero flebilmente le sventurate – aiutaci o moriremo!”

Valina, senza pensarci due volte, le liberò e medicò le loro ferite. E quelle per gratitudine le regalarono tre pietre dai poteri speciali. La femmina del tasso le diede una pietra rosa che, se lanciata in aria, avrebbe diffuso una dolce ninna nanna, la faina le consegnò una pietra rossa che avrebbe reso invisibile chiunque l’avesse stretta nella mano sinistra e, infine, la donnola una pietra bordò che avrebbe fatto correre velocissimo chiunque l’avesse tenuta in bocca.

Valina ringraziò le nuove amiche e proseguì la sua fuga. Intanto, lo stregone cattivo si era recato nel villaggio delle Tre Capanne per rapirla. Immaginate la  sua rabbia quando entrò nella camera da letto di Valina e non la trovò. Andò su tutte le furie e bruciò con uno starnuto le tre capanne. Era fuori di sé e si mise subito in cerca della sua preda.

Valina dal canto suo, girovagando senza meta, si ritrovò nientepopodimeno che davanti la grotta dello stregone. Lì si armò del coraggio, fece un grosso respiro ed entrò. Perlustrò ogni anfratto finché non arrivò in uno stretto e oscuro cunicolo, che attraversò. Finì nel punto più buio della caverna dove era imprigionato in una piccola gabbia un povero barbagianni malato.
Appena vide Valina subito le disse: “Cosa fai qui bella bambina? Fuggi prima che torni lo stregone o per te sarà la fine”.

Ma Valina, invece di scappare, liberò il barbagianni dalla gabbia e gli disse: “Non serve a niente fuggire ho deciso che aspetterò qui lo stregone e lo affronterò”.

Il pennuto, meravigliato da tanto coraggio, le volle fare un regalo: le diede un granellino di sabbia e le disse che se lo avesse stretto tra i pollici sarebbe potuta volare in alto nel cielo.


Valina attese per diversi giorni lo stregone.
Egli tornò solo dopo aver girato in lungo e in largo il mondo.
Quando Valina lo sentì arrivare strinse la pietra rossa nella mano sinistra e diventò invisibile.
Lo stregone, pensando di essere solo, si sedette sul suo giaciglio e iniziò a borbottare: “Se non troverò la bella Valina per me sarà la fine diventerò vecchio e brutto. Me misero, me tapino! Comunque non devo lamentarmi! L’importante e che non vengano la Fata delle Nuvole e la Fata delle Terre Orientali. Senza i miei poteri per me sarebbe la fine! Mi ucciderebbero di sicuro! E si vendicherebbero dei torti che mille volte ho fatto loro ingannandole”.

Sentite queste parole Valina lanciò la pietra rosa e si tappò le orecchie. Una melodia dolcissima si diffuse nella grotta e lo stregone si addormentò.
A quel punto Valina si mise in bocca la pietra bordò e corse dalla Fata delle Terre d’Oriente. La raggiunse in un batter di ciglia e non si dovette sforzare molto per convincerla ad aiutarla. La fata fu ben felice di seguirla nella tetra dimora dello stregone per potersi così finalmente vendicare dei tanti torti subiti.
Infine Valina strinse tra i pollici il granello di sabbia e volò in alto in cielo per avvisare anche la Fata delle Nuvole che la seguì lasciando in sospeso le pulizie dei cirrocumuli.

Le due fate fecero un sortilegio allo stregone che divenne vecchissimo, bruttissimo e fu privato di tutti i poteri. Fu condannato a vivere il resto della sua esistenza nelle viscere della terra e a scavare nelle miniere oscure. Il sole tornò alto sul Monte Livata e tutte le malefatte e i sortilegi dello stregone furono cancellati. Ritornarono in vita le bambine uccise, le capanne bruciate risorsero dalle ceneri e il barbagianni si trasformò nel principe di Subiaco che Velina da grande avrebbe voluto sposare perché era ricco, giovane e bello, ma questa è un’altra storia……*

Il Monte Livata si trova nel Lazio. Vuoi conoscere il racconto che gli alberi centenari fecero a Valina? Vai sulla pagina di Campo dall’Osso.

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