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La lunga strada verso il ghiacciaio dello Stubai

La guerra imperversò per due lunghissimi anni. Maja non sapeva se Dafne, Mona e Lona, Sami e Colombo Cristofaro fossero sopravvissuti agli eventi nefasti che avevano sconvolto gli universi. Di Morana e Mastro Tonio non c’era traccia. Maja, sola e sperduta, si trascinava da giorni per un’impervia ascesa. Senza cibo e avvolta costantemente da una fitta nebbia si muoveva più per inerzia che per un reale istinto di sopravvivenza. La quarta notte, senza aver trovato riparo nel pieno di una bufera, Maja stremata si lasciò cadere a terra, e nel farlo immaginò che di lì a poco il suo corpo esanime sarebbe stato sepolto dalla neve che già da alcune ore cadeva copiosa.
Il solo risvegliarsi fu per lei una sorpresa; figurarsi quanto le sembrò incredibile alzarsi, dopo aver constatato di avere ancora energie, ed osservare il mirabile scenario che la circondava. Tutto per Maja fu stupore e meraviglia. Fu invasa da una piacevole sensazione di quiete e armonia che le fece riaffiorare quel sentimento di pace provato fuori dalla casa della neve, quando era ancora insieme alla sua amica Dafne. Il dolore per il fallimento, la solitudine, la stanchezza si ritirarono in una sacca interna del suo corpo e liberarono le arterie di Maja da ogni ostruzione che le avevano provocato; il 💓  della ragazza, con precisione e rinnovato vigore, aveva ripreso a scandire il tempo di ogni sua più piccola cellula. La guerra che le aveva portato via tutti gli affetti era svanita. Lassù, in cima alle montagne dello Stubai, non si udiva l’angosciante fragore delle esplosioni e il cielo e la terra non erano corrotti dalla brutalità dei mezzi armati.
Maja, commossa dalla bellezza che la circondava, raccolse con il pugno la neve e la mangiò; poi, sentì come un calore dentro di lei. Fu in quell’istante che capì che il suo futuro stava per compiersi. In lontananza vide un fuoco attorno al quale c’erano persone che cantavano. Si fece coraggio e si incamminò verso di loro.

Le Alpi dello Stubai sono una catena montuosa che fa parte delle Alpi Orientali. Leggi anche la Valle dell’Inn.

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I 5 laghi della Presanella Maja e Dafne incontreranno Mastro Tonio?

Ancora provate dalle recenti avventure Maja e Dafne continuano il loro viaggio alla ricerca di Morana e si dirigono verso l’impervio gruppo montuoso dell’Adamello-Presanella.
Ma perché scelgono di affrontare un percorso che si potrebbe definire, volendo usare un eufemismo, alquanto ostico?

La scorsa notte le fanciulle hanno avuto in sogno la stessa visione profetica.

Erano insieme, mano nella mano, e si trovavano all’interno di un impetuoso vortice d’aria; lì, una voce echeggiava forte: “Se scalerete le impervie montagne nei pressi del vecchio borgo di Pinzolo potrete vedere, anche se solo per pochi istanti, Mastro Tonio”.

Le due ragazze sanno con assoluta certezza che l’antro di Morana dista ancora molto, tuttavia quello strano messaggio ricevuto nel sonno le convince a compiere quella deviazione.

Il sentiero che dovrebbe portarle in cima alle vette è ripido, scosceso e pieno di insidie, ma, conosciamo bene le nostre amiche, non sarà di certo un piano inclinato a dissuaderle dai loro propositi!
Per fortuna è attivo un servizio di trasporto a supporto di un programma di promozione dell’ecoturismo locale: l’aquilavia.
Due aquile reali ghermiscono gli scalatori nel paese della Madonna di Campiglio e li lasciano a poche centinaia di metri dal Lago Ritorto a più di 2000 metri di altezza.
E così, grazie all’aquilavia, Maja e Dafne si risparmiano almeno un giorno di cammino, ma, una volta a terra, si accorgono di avere un problema: non sanno dove devono andare!
Di nuovo, però, la buona sorte, sotto forma di due capre e un fior di tarassaco, viene loro incontro.

“Andate a chiacchierare un po’ più in là brutte caprone vecchie e pettegole, altrimenti rischierete di soffiarmi via!”
“Che strana imprecazione! Sembra venire da dietro il tornante!” Dice Maja incuriosita a Dafne che le risponde.
“Su, forza andiamo a vedere!” 

Appena terminano la curva vedono, distanziate tra loro su di uno scosceso pendio, due caprone e un fiore di tarassaco che continuano a battibeccare.
Il gruppo si accorge delle due fanciulle.
Una delle due nobili discendenti dell’egagro dell’Asia Minore si rivolge alle ragazze con garbo: “Buongiorno signorina Maja e signorina Dafne, non fate caso a quel burbero fiore. Ci prendiamo cura di lui da quando è nato, ma nonostante tutto continua a temere che lo soffiamo via.
Ah, i tarassachi! Che esseri strani che sono!
Comunque vi aspettavamo. Sappiamo del vostro sogno e vi possiamo confermare che è tutto vero.
Cara Maja presto potrai vedere e parlare con il tuo amato babbo.
Tra queste cime ci sono 5 laghi magici e l’ultimo, il lago Gelato, è in realtà un varco dimensionale. Attraverso questo specchio d’acqua ogni 10 minuti è possibile vedere uno degli infiniti punti dell’universo anche se solo per pochi istanti.
Esattamente tra 3 ore 15 minuti 27 secondi e 4,5 decimi si aprirà nella grotta di Morana” conclude la capra.
“Ma, gentile caprone, dove si trova questo lago?” Le chiede Dafne.
“Vi dovrete arrampicare in cima a quelle vette lassù; seguire il sentiero delle mucche di montagna e al lago Nero prendere la deviazione per la Baita Serodoli.
Una volta là sarete praticamente arrivate”.
“Forza su sbrigatevi altrimenti non arriverete mai in tempo”.
Maja e Dafne ringraziano le capre per le indicazioni ricevute e si mettono subito in cammino.
Non appena si allontanano, il tarassaco riprende a brontolare e le caprone a spettegolare; parlano dei dispetti tra il filo d’erba e il sasso nero e deridono la vanità della stella alpina.
Ben presto le loro chiacchiere si trasformano in brusio; Maja e Dafne sono già in cammino, anzi si stanno arrampicando per la parte più ripida della montagna. E, proprio mentre il loro sforzo è al massimo, un’improvvisa nebbia si abbassa su di loro e le due amiche non riescono più a vedere niente al di là del loro naso.
Scorgono una specie di piccolo sentiero sotto i loro piedi, si prendono per mano e continuano la scalata.
A un certo punto il sentiero si biforca. “Deve essere la deviazione del lago Nero!” Esclama Dafne. Ma non riescono a vedere nulla.
Si affidano al loro istinto e prendono il percorso di sinistra.
Camminano, il tempo passa e loro non hanno idea se si trovano ancora sulla retta via.
Trascorse 3 ore hanno ormai perso ogni speranza di arrivare puntuali all’apertura del varco; poi, sentono il rumore di un campanaccio e…
…in quell’istante la nebbia si dirada, davanti a loro appare un’enorme mucca marrone e, poco distante, una casetta di legno.
È la baita Serodoli. Il lago Gelato si trova qualche centinaia di metri più avanti.
“Evviva ce l’abbiamo fatta!” Urlano insieme le due ragazze.
La mucca, sorridendo, consiglia loro di sbrigarsi: “Correte, il varco si aprirà tra poco!”
Maja e Dafne affrontano l’ultima salita senza indugi e nel momento in cui arrivano sulla riva del lago il varco si apre.
All’inizio vedono solo una figura confusa, poi l’immagine diventa più nitida e, seduto su una sedia con le mani legate, appare Mastro Tonio che si accorge subito della loro presenza.
“Ero certo che ce l’avreste fatta!
Mia cara Maja sono felice che sei di nuovo con la tua amica Dafne.
Sapete, Morana ha un libro dove ho letto tutta la vostra storia.
Adesso è fuori e quando va via mi tiene legato, ma non è sempre così.
Non abbiate pena per me. Presto ci rincontreremo e quel giorno avrà inizio una nuova vita!
Cercate di non perdervi più e continuate a camminare per gli universi. Un giorno riuscirete a scovare questo nascondiglio.
È vero, prima dovrete affrontare molti imprevisti, ma saranno tantissime le amiche e gli amici che incontrerete e che vi aiuteranno a superare ogni difficoltà! 
Ti voglio bene figlia mia e voglio bene anche a te Dafne anche se non ci siamo ancora conosciuti di persona.”
E con queste parole Mastro Tonio conclude il suo discorso.

Dagli occhi delle due fanciulle scendono due grossi lacrimoni.

Maja riesce appena a dire: “Anche io ti voglio bene, papà” prima che il varco si richiuda davanti a lei.

Maja sarebbe voluta restare a parlare con il padre per ore, ma è comunque felice! Sa che Mastro Tonio è vivo e sa che se non si fermerà nella sua ricerca, un giorno potrà finalmente liberarlo dalla perfida strega e nessuno li separerà più.

Abbraccia Dafne. La strige forte a sé. Poi, le due amiche riprendono il cammino.

Quale sarà la prossima tappa del loro incredibile viaggio?

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Gli alberi di Campo dell’Osso

Campo dell'Osso

Valina trascorse diversi giorni, dopo aver sconfitto il terribile Stregone delle Nevi Invernali (vedi la favola di Valina – Monte Livata), a parlare con gli alberi centenari di Campo dell’Osso. Ognuno aveva tante storie da raccontare; il pioppo ne sapeva due o tre molto divertenti, il leccio una decina che facevano morir di paura, ma una più delle altre riuscì a riempire il cuore e l’attenzione della bella eroina e a narrarla fu Rovere la quercia più anziana del luogo.

Il suo racconto cominciò così: “C’era una volta, tanti, tanti, ma proprio tanti anni fa, una bambina dolce e graziosa, proprio come te mia cara Valina. Questa bimba era stata portata nel nostro bosco da una cicogna un po’ miope. Il volatile aveva confuso le nostre chiome con i capelli di un gruppo raggae attendato lungo il litorale di Sabaudia. Fu così che insieme alle orchidee decidemmo di fargli da zii e la chiamammo Soldanella. La piccola cresceva rapidamente e ben presto imparò a stormire, proprio come noi, facendo passare il vento tra i suoi folti capelli (ereditati dai suoi veri genitori).
All’età di quattordici anni Soldanella aveva già costruito 25 case sugli alberi e riusciva a saltare da una chioma all’altra anche se distanti cinque metri tra loro. Con lei eravamo felici; il suo sorriso, la sua voce, le sue capriole illuminavano in modo speciale le nostre vecchie cortecce.
Un giorno, un ragazzo si spinse a esplorare il campo e il suo sguardò incrociò quello di Soldanella. La fanciulla aveva da poco compiuto il suo diciottesimo anno di età e nel vedere per la prima volta nella sua vita un giovane e affascinante coetaneo della sua specie venne inevitabilmente scossa da un brivido e dalla curiosità. Rodomonte, questo era il nome del baldo avventuriero, trovandosi di fronte la bella Soldanella non venne meno alla sua fama di gran seduttore. Cambiò la forma dei suoi occhi e li trasformò in due cuoricini; quindi, dopo essersi presentato, – Sono Rodomonte cavaliere delle terre dell’Aniene, amante della natura e delle selve – iniziò a riempire di complimenti Soldanella e a lodare la bellezze di quel posto. Sodanella che non era abituata agli esseri umani non sospettò che quel ragazzo gentile le potesse mentire, gli permise di corteggiarla e gli rivelò ogni segreto più prezioso del suo amato bosco.
In realtà, Rodomonte era un vile mercenario; aveva ricevuto dall’Imperatore delle Oscure Paludi Infernali il compito di disboscare quelle terre per costruire un’autostrada che collegasse i Simbruini direttamente con il centro dell’inferno. Con l’inganno, esprimendo a Soldanella il desiderio di voler trascorrere del tempo da solo con lei, riuscì a farsi confidare quali fossero il giorno e l’ora in cui tutto il bosco si sarebbe addormentato. Fino a quel momento era a conoscenza soltanto del fatto che, per sessanta minuti, gli alberi sarebbero precipitati in un sonno talmente profondo che neanche il più terribile dei terremoti sarebbe riuscito a interrompere (occasione ideale per perseguire il diabolico piano dell’Imperatore), ma non sapeva quando questa ghiotta opportunità si sarebbe verificata. 
Quando Soldanella si presentò all’appuntamento non trovò un giovane innamorato con gli occhi a cuoricino, ma un esercito di demoni boscaioli pronti a devastare e a distruggere ogni forma di vita. Non c’era più tempo per avvertire i suoi amici; il destino di Campo dell’Osso dipendeva da lei. Dai suoi genitori biologici Soldanella non aveva ereditato solo i folti capelli, ma anche una voce magica; e fu quella voce che le permise di salvare i suoi amici. Intonò una nota acutissima che bloccò l’avanzata dei bascaioli assassini per un’ora. Quando si esaurì il suo canto il bosco si risvegliò e poté dunque scacciar via i demoniaci assalitori.
Purtroppo, a causa dello sforzo la bella fanciulla perse tutte le energie, il suo corpo divenne esile come uno stelo e i suoi capelli si tinsero di viola.
Si trasformò in un piccolo fiore che ogni primavera continua a sbocciare sempre sullo stesso punto del prato di Campo dell’Osso. Proprio lì, accanto a te mia dolce Valina, e così per alcuni giorni ogni anno tutti noi siamo nuovamente felici.

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Gran Sasso d’Italia

Mentre il popolo veniva abbagliato dal riflesso delle luci puntate sui polsi del ricercato appena sbarcato in città, Maja passeggiava felice per il vasto altopiano abruzzese; al tramonto si era, poi, attardata ad ammirare lo splendore di quell’enorme e meraviglioso masso di pietra che da secoli, come un titano, svettava tra le cime più alte dell’Appennino.

Sugli schermi l’immagine spettacolarizzata del condannato era stata mostrata per ore, commentata da poche e ripetute parole che non erano riuscite minimamente ad avvicinarsi al concetto di verità, ma che, al contrario, erano servite ad aggiungere ulteriore confusione tra i concetti di delitto, giustizia,  legge e barbarie.
Infine, nel momento in cui la tenue luce del sole crepuscolare, sostenuta da un complice vento di tramontana, era riuscita a restituire allo sguardo della nostra eroina il ritratto perfetto dell’armonia, della pace e della bellezza, l’individuo, che non aveva mai pienamente capito se in gioventù fosse stato un criminale o un rivoluzionario, realizzò che più di ogni altro aveva servito il potere, a lui astutamente affidatosi per insinuare negli animi il desiderio di ordine e il sentimento della paura.

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Il Vesuvio

Mastro Tonio ricorda la bellezza del Vesuvio dove incontrò per la prima volta Morana. All’interno del cratere la strega teneva il suo studio di alchimista dove sperimentava terribili sortilegi. Questo avvenne per molti secoli ossia fin quando, a causa di un dosaggio sbagliato, non lo fece esplodere; sfortunatamente in conseguenza di quell’errore non andò in fumo solo il laboratorio della maga, ma anche una parte della città di Napoli, una parte della città di Castellammare e ogni paese che vi si trovava nel mezzo.

Altre avventure sui vulcani: la caldera di Santorini

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Monte Vettore

Monte Vettore

C’era la nebbia sul Pian Grande e non si vedeva intorno che per pochi centimetri. Il resto era un umido bianco sporco. Era mattina. Dafne non sapeva l’ora. Le 7, le 8, forse le 9. Nonostante fosse estate faceva molto freddo.
Aveva camminato tra ruderi e vecchie rovine. Lungo il percorso aveva incontrato volpi, donnole, tassi, istrici, ma non aveva mai visto gli umani. Era andata avanti, in salita. Poche e brevi soste: per dormire, per mangiare, poi aveva solo camminato. E nel continuare a farlo, nel mettere un piede davanti all’altro, le venne da pensare a chi, in quegli stessi istanti, nei più diversi e remoti luoghi degli universi stava facendo cose belle; pensava ai pittori, agli artigiani, ai cineasti, agli scrittori. Li immaginava al lavoro e provava invidia. Odiava le loro opere e i loro successi. A lei quelle strade erano state proibite; a lei era stato ordinato di camminare.
Aveva ricevuto il compito di attraversare quei posti desolati e abbandonati dall’uomo, dove la natura, seppur meravigliosa, la rendeva inquieta; dove ogni forma vivente portava con sé il segno di una orribile violenza da cui era stata irrimediabilmente lacerata.

Destro e sinistro, destro e sinistro, in salita. La sua sembrava un’esercitazione militare; un’esercitazione che andava avanti da mesi, anzi da anni e il senso non c’era.
Morana le aveva chiesto di seguire le sue assurde indicazioni e in cambio l’avrebbe lasciata vivere ancora per un po’.
L’illusione che Dafne si era creata per trovare le forze per andare avanti, era che lungo il cammino avrebbe potuto incontrare Maja, ma in realtà stava solo sprecando quel poco tempo che le rimaneva a disposizione in una monotona estenuante scalata verso una cima che sembrava non arrivare mai e dove mai avrebbe potuto riabbracciare la sua amica.
La sua missione, il suo lavoro, era consegnare una lettera. Una lettera che alla fine del Pian Grande, nei pressi di un abbeveratoio, volle tirar fuori dallo zaino. Doveva capire perché stava dedicando una parte della sua vita a quel pezzo di carta. Osservò la busta: il mittente era l’Ufficio per il Progresso per un Mondo Migliore. Il destinatario il vecchio pastore del Monte Vettore. Le venne naturale chiedersi cosa volesse la burocrazia cittadina da un uomo sperduto che viveva in quelle terre remote e che forse era già morto da tempo.

Non resistette. La aprì e la lesse. C’era scritto: “Egregio signor pastore, Ella è l’ultimo abitante di quella parte del Centro Italia che venne devastata dal terremoto. La zona dove vive non è sicura. Non lo è mai stata. La terra continua a tremare e noi non possiamo garantire la Sua incolumità. La invitiamo pertanto ad abbandonare quei luoghi e a recarsi presso i nostri uffici lungo la costa. Provvederemo ad assegnarLe un’abitazione decorosa e a far sì che Ella possa avere una vita tranquilla”.

E così, l’Ufficio per il Progresso per un Mondo Migliore impiegava le proprie risorse per invitare un folle ad andare via da quella terra ostile.  Che senso aveva?  Perché, poi, mandare lei in cima a quella pericolosa montagna?

Dafne non riusciva a darsi una risposta, ma intanto continuava a fare quello che le era stato richiesto. Tornante dopo tornante era giunta nei remoti anfratti dell’Umbria: era passata per Borgo Cerreto, per Norcia, la città senza più campanili, per la oramai inesistente San Pellegrino, e da lì si era inerpicata per la montagna lungo una strada che non era più una strada, ma un miscuglio di crepe, asfalto, erba e terra. In cima ad una vetta aveva visto i resti di quello che, prima delle devastanti scosse, era stato il nuovo Rifugio Perugia.
Poi era scesa sul Pian Grande. Là, per orientarsi nella bianca oscurità della nebbia, si era affidata a una bussola che aveva portato con sé e grazie alla quale era riuscita a raggiungere Forca di Presta, il punto da dove attaccare l’ultima ascesa; l’ascesa  al monte Vettore, vertice estremo di una faglia che tante volte aveva fatto urlare la terra e che tante volte, in quell’inferno al contrario, aveva fatto piangere anche il più infinitesimale organismo.

A Forca di Presta prese un sentiero, più ripido di quelli che aveva fino a quel momento percorso. Sotto i suoi piedi la terra tremava, ma quell’incessante vibrare smise di farle paura. D’improvviso si sentì protetta, cullata, sicura, e non ci mise molto ad arrivare in cima.
Sulla vetta fu testimone di uno spettacolo di rara bellezza. Un enorme cratere, un verde prato puntellato da milioni di stelle alpine, un lago rosso a forma di occhiali e, intorno, una comunità di gitani.

Dafne si presentò con timidezza, poi disse agli zingari che stava cercando il vecchio pastore.
“Forse, parla del signor Pietro”, bisbigliò un bambino nascondendosi dietro la lunga gonna viola e bordò di una giovane a affascinante fanciulla dagli occhi di perla.
Dafne fece cenno di sì.
Allora Jasmine, così si chiamava la bella zingarella, un poco commossa disse che il vecchio eremita era morto quella notte stessa.
La donna invitò Dafne a restare un poco con loro e le indicò una tenda dove si sarebbe potuta ristorare. Quando giunse la sera accesero un fuoco e mangiarono insieme intorno a una grande tovaglia sulla riva del lago. Jasmine raccontò la storia di Pietro e di come quella storia fosse diventata parte integrante della storia del suo popolo.
Dopo il violentissimo terremoto dell’anno 16, il sacro imperatore aveva promesso che avrebbe riportato la vita e l’industria nelle terre colpite dal sisma. Purtroppo, quella promessa non venne mai mantenuta e lentamente, scossa dopo scossa, ogni cittadino venne sradicato dalla propria terra e “accompagnato” in città. Solo Pietro riuscì a resistere; si nascose per anni tra le rovine del vecchio borgo di Castelluccio e poi, braccato, si rifugiò sul cratere del Monte Vettore. Lì visse con poco, a volte con niente. Quando la morsa del gelo era troppo stretta anche per lui, guardingo scendeva sui grandi piani e faceva incetta di erbe selvatiche.
Con il passare del tempo prese l’abitudine di spingersi giù a valle più spesso: anche a primavera e d’estate per seminare le lenticchie e per raccogliere i legumi, i funghi (turini, mazze di tamburo, etc.) e i frutti di bosco.
Così, mentre Pietro l’eremita viveva dimenticando le regole sociali e imparando a conoscere quelle della aspra natura dei Monti Sibillini, noi rom venivamo scacciati con le ruspe da quelle stesse città in cui erano venuti ad abitare, controvoglia, i suoi compaesani; gli amministratori locali prima ci emarginarono nelle discariche e poi ci mandarono via anche da quelle.
A rendere ancor più insostenibile la nostra situazione le invettive di alcuni cittadini, pieni di odio, che ci urlavano contro: “tornatevene a casa vostra”.
Ma noi un a casa non l’avevamo mai avuta.
E capitava spesso persino che di notte qualcuno scrivesse con il gesso sulla terra accanto alle nostre baracche: “Andatevene al vostro Paese o morirete”.
Ma noi un nostro Paese non lo avevamo mai avuto.  
I nostri antenati si erano sempre spostati cercando di fare attenzione a non esaurire le risorse dei luoghi in cui si fermavano. Per secoli molti di loro avevano svolto nobili professioni: erano stati artigiani, ballerini, musici, e per molte popolazioni erano stati dei maestri.
Poi, purtroppo, le cose cambiarono; le città si trasformarono in metropoli, le metropoli in megalopoli e ogni singolo centimetro di terra divenne di proprietà di qualcuno.
Si persero.
I più scaltri strinsero accordi con i criminali locali, si auto proclamarono nostri capi, fecero mali affari con i delinquenti più potenti e iniziarono a sfruttarci.
Il sistema economico mondiale scricchiolava.
E noi, di quel sistema, eravamo lo sporco più evidente. Eravamo la crepa visibile di un mondo che aveva le fondamenta putrefatte.
I borghesi divennero più poveri e, per paura di perdere quello che gli restava, iniziarono a schivarci, a schifarci.
Bruciarono le nostre baracche e impedirono che i nostri figli frequentassero le loro scuole. 
Una mattina, dopo l’ennesima provocazione, decidemmo di metterci in marcia senza una meta. Camminammo per giorni prima di uscire da un agglomerato urbano che sembrava non avesse mai fine. 
Quando giungemmo quassù eravamo stremati e terrorizzati. La terra si muoveva continuamente; era come stare sul cratere di un vulcano pronto a esplodere da un momento all’altro.  
Quel vulcano, però, era l’unico posto dove l’uomo ci avrebbe lasciati in pace.
Così, quando incontrammo Pietro, ci rendemmo conto che forse una vita lì era possibile anche per noi e che, forse, c’era ancora speranza.
Dobbiamo tutto a lui. Ci ha insegnato a sopravvivere e ci ha insegnato che su queste montagne si può essere felici.
E oggi lo siamo, felici. Questa terra abbandonata non ha più un padrone e siamo liberi di calpestarla, di percorrerla, di abbracciarla.
Qui non siamo più dei ladri.

Siamo solo esseri viventi mescolati ad altri esseri viventi.

Via anche alla pagina il Monte Vettore e il sogno di Giufà

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Il Monte Soratte

Il Monte Soratte, solitaria e imponente massa calcarea di 691 metri, è il Monte di Roma.
Per Mastro Tonio, quando da bambino ritornava da una vacanza in Umbria, vedere in lontananza la sagoma dell’eremitico monte significava sentirsi a casa. Mamma Rita guidava la nuova e potentissima 600 e papà Antonio, ogni volta  che passavano accanto al macigno della dorsale Tiberina, raccontava a tutti di un fatto accaduto durante la terribile guerra universale: mentre esplodevano le bombe in ogni dove l’efferato ufficiale Kappler nascose un preziosissimo tesoro in una delle innumerevoli cavità del Soratte. Era una leggenda? Mastro Tonio non lo ha mai capito. 
Ma sembra che, ancor oggi, sia possibile incontrare qualche avventuriero destreggiarsi tra le incanalature del monte per riportare alla luce il famoso oro di Kappler. Nessuno è mai riuscito a scovarne il nascondiglio, nonostante alcune persone abbiano speso la loro intera esistenza a ricercare il tesoro.
A distanza di tanti anni, Mastro Tonio fa visita al paesino di Sant’Oreste e incontra uno di quei cercatori d’oro. E’ un tedesco e sembra che abbia ritrovato all’interno di un vecchio mobile una mappa con le indicazioni esatte del luogo dove Kappler nascose le sue ricchezze.
Si salutano e si abbracciano. Poi, Mastro Tonio osserva il tedesco partire per la sua spedizione e si chiede, mentre si siede su una panchina, se sia un sognatore o, semplicemente, un altro folle.

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